I Futuristi nelle trincee sognavano la rivoluzione e scoprirono l’orrore

di PIETRO SPIRITO
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nell’euforia delle “radiose giornate di maggio”, un nutrito manipolo di artisti e intellettuali in gran parte aderenti al Futurismo si arruolò in blocco nel Corpo nazionale di volontari ciclisti e automobilsiti (Vca), una specie di milizia civile sottoposta alla vigilanza del Ministero della Guerra che aveva il compito di difendere la Patria con reparti di fanteria montata.
Tra questi si distinse il Battaglione lombardo, fra i primi ad essere dichiarato pronto al combattimento, al comando del capitano Carlo Monticelli, nel quale si arruolarono i principali esponenti futuristi: Achille Funi, Anselmo Bucci, Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Russolo, Mario Sironi, Carlo Erba, Ardito Desio, Ugo Piatti e Antonio Sant’Elia. Dopo essere stato impiegato in combattimento sulla sponda orientale del Garda, il Battaglione, assieme altri reparti del Vca, venne sciolto pochi mesi più tardi, nel dicembre 1915.
Ma molti dei volontari continuarono a combattere richiamati nel Regio Esercito secondo le rispettive classi di leva. Fra questi l’architetto Antonio Sant’Elia, autentico genio - fu il primo a progettare gli ascensori esterni ai grattacieli - che morirà in battaglia nelle trincee del Monfalconese, sulla Quota 85, il 10 ottobre 1916. Ed è proprio la figura di Sant’Elia il personaggio principale attorno al quale ruota il nuovo romanzo di . Gianni Biondillo, “Come sugli alberi le foglie” (Guanda, pagg. 349, Euro 18,50), ampio affresco di una generazione che ha segnato la storia d’Italia, e che Biondillo racconta in un intreccio di relazioni, vicende e azioni ambientate tra i caffè letterari dell’anteguerra e l’orrore delle trincee. Il libro sarà presentato domani alle 18, al caffè San Marco, a Trieste, da Alessandro Mezzena Lona e Luigi Nacci, che ne parleranno con l’autore.
Perché ha scelto fra tutti proprio Antonio Sant'Elia come personaggio-chiave del romanzo?
«C'è innanzitutto - risponde Gianni Biondillo - una ragione autobiografica. Sono un architetto di formazione. I suoi incredibili disegni furono fonte di autentica ammirazione da ragazzo. Alcune sue intuizioni formali, o teoriche, descritte nel suo Manifesto, sono state punti fermi dell'architettura del novecento. Ma, e qui il mio lato da narratore esce fuori, Sant'Elia è anche un artista che non ha mai sostanzialmente costruito nulla. Estattamente 100 anni, nel 1916, moriva anche Boccioni, di certo molto più famoso di lui. Ma qualcosa, comunque aveva lasciato: dipinti, sculture, diari. Sant'Elia invece non ha mai potuto dimostrare in cantiere il suo genio. È morto a 28 anni sul Carso, come migliaia e migliaia di suoi coetanei, per una guerra che forse non aveva neppure capito per davvero. Metterlo al centro di questa narrazione ha significato, per me, ritornare ai fondamentali della mia disciplina e al contempo restituire alla memoria collettiva una storia che meritava di essere dissepolta».
Sia nell'esperienza dei Vca, che dopo, nei reparti dell'esercito, quali furono i rapporti fra gli intellettuali interventisti al fronte e i richiamati?
«In fondo quelli classisti di una società fatta ancora per caste, dove il popolo stava iniziando ad irrompere come protagonista nella Storia. I contadini, gli operai, gli artigiani, di andare a morire in un posto sconosciuto per combattere una guerra con nemici sconosciuti, proprio non ne avevano voglia. In fondo era una nazione giovane. I loro padri o nonni non erano neppure nati italiani. Se le divisioni culturali e sociali persistevano, in ogni caso la promiscuità della trincea, il vivere e morire assieme ha di certo creato un nuovo modo di sentirsi, come scrisse Ungaretti, "fratelli". Su quel sangue, su quel sacrificio assurdo, s'è comunque creata l'idea di nazione italiana».
Si può imputare a questi artisti e intellettuali, oggi, una sorta di falsa coscienza nei confronti della guerra?
«Partirono tutti convintamente interventisti, anche quelli che tornando scrissero i libri più autenticamente pacifisti. Proprio perché la retorica di quegli anni, la narrazione della guerra giusta, eroica, aveva pervaso tutta la classe dirigente, tutta l'intellighenzia, la mente di tutti gli studenti universitari. Fu una sorta di ubriacatura generale. Parlare di falsa coscienza, oggi, può sembrare semplicistico e fin troppo moralistico. Quei ragazzi erano convinti di andare a combattere una guerra ottocentesca - perché lo era soprattutto nella testa dei generali, dei politici europei - credevano di andare verso la bella morte studiata sui poemi classici. Solo in trincea si resero conto di essere stati catapultati in un carnaio assurdo. La Prima Guerra Mondiale è stata la prova generale del peggio di tutto il secolo breve».
Nella Grande guerra irrompe la modernità: in termini di forme e linguaggi qual è stato il lascito per il Ventennio - e oltre - a seguire?
«Per quanto riguarda l'eredità di Sant'Elia noi neppure ce ne rendiamo conto. Il fascismo s'è impossessato di questi morti, li ha fatti diventare i loro martiri. Ma Sant'Elia, Boccioni, Erba, etc. non furono fascisti per il semplice fatto che il fascismo neppure esisteva quando sono andati al fronte. Erano socialisti, rivoluzionari, anarchici. Il pregiudizio ideologico che dal secondo dopoguerra ha insistito su di loro, non ci ha fatto vedere quanto furono innovativi. Era una generazione che cercava di portare nella modernità un paese sostanzialmente preindustriale. Magari con idee bislacche, improvvisate, ma spesso con intuizioni geniali. Non ci sarebbero Joyce o Pound senza Marinetti, non ci sarebbe John Cage o la musica concreta senza Russolo. E non ci sarebbero le scenografie di Metropolis e Blade Runner, non ci sarebbero i grattacieli delle "archistar" contemporanee senza i disegni di Sant'Elia».
Che cosa ha provato quando ha visitato la Quota 85 dov'è morto Sant'Elia?
«È stata un’emozione molto forte. Camminare in questi paesaggi contaminati dal sangue, dal delirio, dalla morte continuamente presente, insistente, inevitabile... Non vorrei apparire retorico, la retorica del ventennio ha in questo senso annichilito simbolicamente questi luoghi, ma ho avuto davvero la sensazione di camminare in un luogo sacro. Non tanto per "la Patria", ma per l'Umanità. Non c'è italiano, non c'è austriaco, tedesco, russo, francese, che non abbia un parente morto in quella guerra. Oggi certe recrudescenze nazionalistiche sembra che palesino il nostro colpevole oblio nei confronti della Storia».
Nel romanzo, quasi come un intermezzo, ci sono pagine dedicate alle esecuzioni di Battisti e Filzi. Perché proprio loro?
«Perché sono stati monumentalizzati, marmorizzati, sotto il fascimo, ridotti a icone unidimensionali. Perdendo quindi le loro ragioni, i loro sentimenti, la loro umanità. Che avessero ragione o torto, giunsero all'irredentismo seguendo una via tortuosa, faticosa, non per slancio irrazionale. Ma più di tutto è la loro morte "mediatica" che, da narratore, mi ha affascinato. Gli austriaci vollero fare della loro esecuzione un atto di propaganda. Anche in questo la prima guerra fu la prova generale di tutto il peggio a cui ancora oggi ci tocca assistere del sistema dei media. Social compresi».
Quale fu il peso degli artisti e degli intellettuali nel far pendere la bilancia a favore della guerra?
«Fu enorme. La penna, in certi casi ne uccide più della spada. E non c'è rivendicazione nazionalistica nel Novecento che non abbia avuto la sua giustificazione culturale, poetica, propagandistica. Voci autorevoli, magari per credo sincero o per vieto interesse personale, possono creare affascinanti narrazioni tossiche tali da attrarre anche chi si crede immune dal conformismo. È, ammettiamolo, difficile dire - come voce nel deserto - qualcosa che va contro quello che tutti dicono. Tutti, compresi amici, o maestri».
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