Il giovane pifferaio fa da guida a Milano nella Parigi di Manet

Fino al 2 luglio la grande mostra a Palazzo Reale con opere dell’artista e dei coevi dal Musée d’Orsay

di CARLA MARIA CASANOVA

A rappresentare la grande mostra milanese "Manet e la Parigi moderna" è stata scelta l'immagine de “Il pifferaio”, il piccolo suonatore della banda della Guardia Imperiale. Manet lo presentò al Salon nel 1866 ma ancora una volta, nonostante la appassionata difesa pubblicata su L'Evénement da Zola, fu rifiutato dalla Giuria.

L'opera era stata preceduta dallo scandalo di “Olympia” (1865) e forse “Il pifferaio” risentiva delle ancor vivaci polemiche. Manet organizzò allora una personale a proprie spese al Pavillon de l'Alma, a margine dell'Esposizione universale. Fu quella l'unica volta, vivo Manet, che il pubblico ebbe occasione di ammirare questo dipinto.

Il ragazzetto nel quale si vuole riconoscere Léon, figlio mai riconosciuto di Manet, si è preso adesso la sua bella rivincita. La mostra appena inaugurata a Palazzo Reale (è visitabile fino al 2 luglio, ore 9.30-19.30; giovedì fino alle 22.30; lunedì 14.30-19.30) è curata da Guy Cogeval e prodotta dal Comune di Milano e da MondoMostre Skira (che edita anche il lussureggiante catalogo, 40 euro).

Le opere presenti, provenienti dal Musée d'Orsay di Parigi sono novantaquattro, suddivise in 16 dipinti (più 11 disegni e acquerelli) di Manet e le rimanenti di maestri coevi: Cézanne, Boldini, Dégas, Fantin-Latour, Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac, Tissot ed altri di secondo piano.

Se la scelta può sembrare uno squilibrio tra le opere del protagonista e quelle dei suoi colleghi, in realtà sta a confermare la stretta parentela esistente tra tutti loro, al punto da creare a volte imbarazzo sull'identità dell'autore. Sarà Manet? Oppure Tissot? O Dégas? Ed anche i "minori" - Eva Gonzalès, Jean Béraud, Gervex… - sono in decisa concorrenza. Stesse scene di balli, di palchi all'Opéra, di Moulin Rouge, interni di Cafés, birrerie. Uguale atmosfera con luci soffuse o dorate.

La grande protagonista è invariabilmente Parigi. Però, Manet la vede con occhio diverso. Forse perché lui, questa Parigi, in un certo senso l'ha creata. A dirla in quattro parole è Degas: «Traeva (Manet) elementi da tutti, ma che meraviglia la maestria pittorica con la quale riusciva a fare qualcosa di nuovo!». Dunque, Edouard Manet non "impressionista", categoria nella quale egli rifiutò sempre di riconoscersi, ma «il più grande interprete della pittura pre-impressionista». Così ci intendiamo.

Edouard Manet - dicono le biografie - proveniva da una ricca famiglia borghese. Direi qualcosa di più: il padre era un alto funzionario del Ministero della Giustizia, la madre figlia di un diplomatico e figlioccia del re di Svezia. Contravvenendo ai desideri paterni, Edouard ha la pittura in corpo. Per fargli cambiare le idee, papà lo fa imbarcare su un mercantile. Edouard ritorna più pittore che mai.

Allora, Accademia e studi seri. Per sei anni il ragazzo battaglia con il suo insegnante, maitre Couture, ma impara il mestiere con i grandi classici. Viaggia in tutta Europa. Entra in amicizia con alcuni dei suoi grandi colleghi. A fare trait d'union è la modella e pittrice Berthe Morisot( grande amore di Manet che però sposerà suo fratello Eugène. La Morisot fu anche una delle tre modelle preferite di Manet, con la storica Victorine Meurent e sua moglie).

Quando muore, il 30 aprile 1883, a 51 anni, dopo una interminabile agonia, (gli era stato amputato il piede sinistro nel tentativo di salvarlo) è oramai celeberrimo, insignito della Legion d'Onore.

Dove sta infine l'unicità di Manet, rispetto ai suoi contemporanei, con i quali tanto spesso entra in simbiosi? Nel come intende il colore: mentre loro cercano di evitare il nero, Manet ne usa e abusa, spesso in contrasto con il bianco, imprimendo alle sue figure grande forza plastica. Nel “Ritratto di Zola” questi due colori gridano addirittura. Il celebre "Berthe Morisot con un mazzo di violette" è una sinfonia in nero, che fagocita anche il debole colore dei fiori. Ne “Il balcone”, i colori sono tre: il nero imperante, il verde di ringhiera e tapparelle, il bianco smagliante dell'abito delle due donne. E c'è il balcone con quella "Angelina" tutta nera, grottesca e inquietante come un Capriccio di Goya.

Sempre nero, il non-colore per eccellenza, che con Manet diventa colore per eccellenza.

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