Il mito Claudio Magris? Adesso lo raccontiamo a modo nostro

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Il ritratto ufficiale di Claudio Magris lo conoscono bene. Racconta di un professore dalla cultura enciclopedica. Sussurra di un lettore capace di citare a memoria frasi intere di libri che gli altri, a malapena, hanno sfogliato. Si compiace dello scrittore intento a distillare capolavori su un tavolino del Caffè San Marco, a Trieste, mentre attorno a lui regna sovrano il caos.
Loro, però, portano dentro un’immagine, un ricordo di Claudio Magris che va ben al di là del ritratto ufficiale. Perché sono stati i suoi allievi. Lo hanno visto da vicino. Sono cresciuti studiando con lui. Si sono laureati discutendo tesi di cui ancora vanno fieri. E sono convinti che, oggi, chi parla del Professore spesso ignora gran parte della sua umanità, della disponibilità e della capacità di farsi coinvolgere anche quando il tempo scorre inesorabile e lui deve fare fronte a una montagna di richieste, di impegni.
E allora? Semplice: 22 suoi ex studenti hanno deciso di non tenere soltanto per sé i ricordi degli anni trascorsi accanto a Magris. In un velocissimo tam tam, partito via mail alla fine di febbraio, si sono messi a progettare un libretto che potesse contenere tutto il loro amore per il germanista. Ma anche gli episodi buffi, la tremarella provata agli esami, i dialoghi serrati e intimenticabili attorno alle tesi di laurea, la scoperta di una persona autentica al di là del mito dello studioso, del saggista. E dello scrittore capace di entrare nella rosa dei papabili al Premio Nobel per la letteratura.
Fine febbraio, si diceva. Un’impresa impossibile. Eppure loro, i 22 ex allievi, ce l’hanno fatta. Sette mesi dopo quel libretto è pronto, ovviamente a insaputa del Propessore stesso. Si intitola, con grande senso della modestia, “Quisquilie”. Lo hanno coordinato Maddalena Longo, Aldo Colonnello e Rosanna Paroni Bettoja per le edizioni del Circolo Culturale Menocchio. Sarà in vendita nel villaggio Barcolana, a Trieste, tra martedì 6 e venerdì 9, poi arriverà anche nelle librerie.
Fa piacere pensare che molti di questi ex allievi di Magris hanno fatto, poi, carriera all’università, nelle case editrici, nelle scuole. Portandosi appresso una sorta di benedizione silenziosa, di marchio distintivo invisibili. «Ereditieri di un regalo per la vita», come scrive Maddalena Longo, per «l’onore di aver studiato con lui e il rispetto che ci procura già il suo nome. E poi il suo sguardo, il suo modo di leggere la letteratura, di capirla e di farla propria tenendola al suo posto senza prenderla e prenderci troppo sul serio».
Normale che alcuni testi partano dal Caffè San Marco. A quel tavolino che Pietro Kobau ricorda ingombro di fogli di carta. Ma il racconto prende subito una strada diversa, perché il Magris seduto lì a scrivere risponde con un vago cenno, un sorriso al saluto dell’ex allievo. Ma lo avrà riconosciuto davvero? E prosegue nelle aule delle università, a Trieste e Torino, le due piazze che il Professore ha frequentato in contemporanea a lungo, senza mai far mancare agli studenti la sua presenza. Anche quando, ricorda Silvana de Lugnani, «piegato in due dal mal di schiena, la faccia a momenti contratta dal dolore, ma veniva».
Lui, il saggista mitico a cui si favoleggiava che Guido Davico Bonino avesse strappato il manoscritto del “Mito asburgico” dal finestrino del treno per pubblicarlo con Einaudi, racconta Giulio Schiavoni. Lui, che ogni volta saliva in cattedra per fare «un’ora di lezione che era pressoché una lectio magistralis», ricorda Lorenza Rega. Lui, l’appassionato lettore di Emilio Salgari, che si presentava «con movimenti nervosi, occhi acutissimi, capelli indomiti divisi da una scriminatura leggermente decentrata, pettinatura che mi ricordò immediatamente Kafka», scrive Ivana Bianchini.
Quel Professore dalla cultura che non conosce confini, era capace di non battere ciglio se una sua studentessa proponeva di scrivere una tesi sul cantautore della Germania Ovest Franz Joseph Degenhardt. E aiutava chi, come Veronika Brecelj, doveva destreggiarsi a Trieste tra la sua anima slovena e una cultura italiana fin troppo dominante, a scoprire nella civiltà asburgica quella «cultura sovranazionale che aveva saputo contrapporsi ai nazionalismi». E se sembrava mantenere «una distanza lievemente algida», che un po’ intimoriva Paola Novarese, sapeva al tempo stesso trasmettere un amore per lo studio che non ammetteva «superficialità e mancanza di serietà».
Il suo sogno segreto? Era stato quello di fare il regista, come ricorda Igor Pison («Magris mi disse: “Adoro il cinema, adoro Kubrick”»). Anni dopo, si sarebbe sentito tradito dal mondo univesitario, a cui aveva dato tanto. Quando la riforma s’era inventata il commercio dei crediti. Il suo corso ne valeva appena nove, gli studenti cominciavano a disertarlo. E Magris, che non poteva rassegnarsi a una logica così mercantile, commentava: «Avete mai baciato una ragazza gratis senza pretendere di essere ripagati?».
Il bello di questo libro è che non esce in prossimità di un anniversario, di un compleanno. Non vuole segnare un momento preciso nella vita e nella carriera di Magris. Semplicemente, lo accompagnerà in un corto viaggio tra i ricordi. Con affetto e riconoscenza.
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