Il palloncino colorato della vita che invecchia nei nuovi racconti di Magris

TRIESTE Il tempo e la vecchiaia. Il tempo, che «è un ordine casuale», e «dove tutto ritorna, tutto è, e io sono già stato», un infinito presente «dove recitiamo forse in due spettacoli, uno lineare e uno circolare». Soprattutto il tempo di certi luoghi, come Trieste, dove i tempi «non si susseguono, ma si allineano l’uno accanto all’altro, come i relitti dei naufragi che il mare lascia sulla spiaggia». E alla fine, però, «che confusione e che incanto» questo essere preda e protagonista del tempo. E la vecchiaia, che no, «non era la felicità», ma piuttosto la stagione in cui il mondo diventa come «un palloncino colorato, che non pesava e si poteva in ogni momento lasciare andare per conto suo».
Oppure la stagione in cui non c’è «nessun rimpianto, nessuna nostalgia o assoluzione sentimentale del tempo che fu». Nei cinque, brevi racconti raccolti nel nuovo libro di Claudio Magris, “Tempo curvo a Krems” (Garzanti, pagg. 96, euro 15,00), da oggi nelle librerie, è condensato il nucleo portante della poetica del Magris narratore, quell’inesausta osservazione della «vita vera, autentica, pervasa di significato; vissuta anche nel tempo, nel tempo illuminato da un valore che non può essere distrutto da niente e da nessuno», e che però non è mai data, ma anzi sfugge e si sottrae in un «irreversibile processo dissipativo».
Cinque racconti fortemente radicati tra i fantasmi e gli umori di queste terre - Trieste e il cuore dell’Europa - dove l’ironia e il gioco legano insieme storie e personaggi che ci sono familiari, e sempre nuovi. Come il protagonista del primo racconto, “Il custode”, un Oblomov tardivo la cui unica aspettativa, nella stagione della vecchiaia, è «tenere lontane le cose». Originario della Moravia, giunto a Trieste prima della Grande Guerra per fare fortuna, dopo una vita da esemplare borghese, marito devoto e padre di famiglia, ora che è vecchio e ricco l’imprenditore d’assalto non vuole più comandare, e si fa assumere dai suoi stessi dipendenti come portinaio in una palazzina di sua proprietà, ora che finalmente «il mondo era un cane che non poteva più morderlo ma si metteva a correre e giocare con lui».
O come Sema, l’anziano scrittore del racconto “Il premio”, chiamato dal possidente e volgare Lanzani quale ospite d’onore a un concorso letterario, e viene presto preso nel vortice fagocitante dell’ingombrante anfitrione, che lo vuole portare a tutti i costi a Parigi. Ma lui, Sema, che ha alle spalle una vita segnata dalle «leggi razziali, il dissesto, la nuova guerra, la fuga, la stella gialla, i genitori, uno morto nel suo letto e l’altra sparita chissà dove, pulviscolo di cenere nello sterminio», lui non vede l’ora di tornare lontano dall’effimero, «nella stanza della pensione in cui viveva: il letto, il lavandino due o tre scaffali di libri, la poltrona accanto al tavolo, l’attaccapanni...».
Esistenze a togliere, dunque, a levare, non arrese nè sconfitte ma sempre chiamate a fare i conti con l’agire dell’uomo nel tempo: la Storia. Nel racconto “Lezioni di musica” Salman Meierstein, ebreo polacco «apprezzato insegnante al Conservatorio, ma niente di più», ha passato l’infanzia a Trieste vestendo l’uniforme del balilla, quando a Trieste tanti ebrei aderirono al fascismo. Ora, dopo una vita trascorsa «da Bilgoraj e Trieste, da Trieste in Palestina e in America, poi di nuovo a Trieste», va a trovare un suo ex allievo, il Maestro Vilardi, diventato violinista di fama, che gli sottopone lo spartito di una sua composizione, «un omaggio alla tragedia del suo popolo». Salman non riuscirà a dissimulare il suo fastidio, un imbarazzante dileggio, nei confronti dell’ex allievo, tanto ormai, di fronte ai tradimenti della Storia, «non c’era più niente di particolarmente serio».
C’è, in tutti questi racconti, la «presenza sempre aperta a acre del passato». In “Esterno giorno - Val Rosandra”, un anziano professore - in cui si riconosce in filigrana la figura di Stuparich - assiste alle riprese di un film ispirato alla sua giovinezza e al suo amore per Magda. E in questa alternanza tra realtà e finzione, mentre legge il copione, l’anziano professore non può non soffermarsi a pensare che «laggiù, in quello spazio sotto i fogli bianchi che ora viene illuminato e dove ora si muovono gli attori, c’era l’attesa del tempo, della vita che doveva venire».
Ma è il racconto che dà il titolo alla raccolta, “Tempo curvo a Krems”, il testo che meglio rappresenta la lotta di Magris con il tempo, appunto. Durante una cena seguita a una conferenza a Krems, viene evocata Nori, una ragazza che pur avendo frequentato la stessa scuola del narratore lui non ha mai conosciuto direttamente. Ma qualche tempo dopo Nori si materializza in una telefonata: lei si ricorda perfettamente del narratore e della loro amicizia.
A questo punto il racconto vira nelle spire del tempo e dei suoi trabocchetti: «Quella familiarità al telefono era dunque l’effetto di una conoscenza reciproca che per forza doveva esserci stata nel passato, e quindi modificava quest’ultimo, risaliva nel tempo a creare, decenni addietro, qualcosa che allora non c’era stato».
E dunque la domanda si fa urgente: se il tempo è una convenzione, come i meridiani che dividono il globo, «che anche l’amore sia una pura convenzione come (...) quel meridiano che non si vede, non c’è?». —
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