Il Science+Fiction torna a Trieste: occhio ai nuovi talenti emergenti

La 24esima edizione del Science+Fiction Festival al via martedì 29 ottobre al Rossetti. L’intervista al direttore Jones: «Oggi filmare è più democratico, il limite è l’immaginazione»

Paolo Lughi
Un fotogramma del film “MadS” del regista transalpino David
Un fotogramma del film “MadS” del regista transalpino David

Torna martedì a Trieste, forte delle sue migliaia di appassionati (10 mila gli spettatori della scorsa edizione) il 24° Trieste Science+Fiction Festival, con una cerimonia alle 20 al Rossetti che si annuncia a sorpresa, seguita da due horror d’autore dal Paese dei Lumière. Il film d’apertura è “MadS”, storia da brividi in un unico piano sequenza firmata da David Moreau, regista transalpino di culto già amato al festival per “Them” (2006) e “Alone” (2017).

Poi alle 22.30 l’anteprima italiana di “The Substance” della francese Coralie Fargeat, premiato a Cannes, dove il tema inquietante del “doppio” vede rispecchiarsi una ritrovata Demi Moore e l’emergente Margaret Qualley.

Il direttore del festival Alex Jones
Il direttore del festival Alex Jones

In una Trieste negli ultimi tempi in evidenza nella cultura nazionale per il Lets, per Magris e Tamaro a Francoforte, Manzon e Rumiz al Campiello, arriva dunque in città questa “Barcolana del Cinema” che è diventata da tempo il Science+Fiction, il cui respiro internazionale è dato anche dal direttore inglese Alan Jones. Alla guida del festival per il terzo anno, direttore nella sua Londra anche del FrightFest, già critico della mitica rivista “Cinefantastique” e della BBC, da grande esperto Jones ha fatto il punto con noi sulla fantascienza oggi.

Zerocalcare sul poster per Trieste Science+Fiction Festival: “Evoca i timori provocati dall’avvento dell’IA”
Zero Calcare in una foto d'archivio

Qual è la situazione attuale del cinema fantascientifico indipendente?

«Ottima davvero! Mentre i blockbuster dei grandi Studios sono sempre più occupati a sfornare fantasie cosmiche stravaganti su mondi epici e selvaggi, il settore indipendente è più audace, incisivo e plausibile nel prevedere i progressi tecnologici. Avere meno soldi significa anche prendersi più rischi di fantasia per puntare in alto, e in questi casi l’immaginazione illimitata di uno scrittore è spesso il miglior effetto speciale. Il lavoro di Brandon Cronenberg è tipico in questo campo, “Possessor” e “Piscina infinita” sono grandi esempi di come la fantascienza si sia spostata in aree in precedenza sconosciute. E lo sono anche “Moon” di Duncan Jones e “Safety Not Guaranteed” di Colin Trevorrow. Ora filmare è diventato un atto più democratico - tutto ciò che serve è un iPhone - le possibilità di basso budget sono infinite, e spesso anche il talento che viene liberato dalla “camicia di forza” degli Studios è molto vivace».

Le piattaforme stanno aiutando la produzione fantascientifica?

«Sì e no. Alcuni degli “streamers” hanno favorito lo sviluppo del genere con prodotti quali “Squid Game”, “Il problema dei tre corpi”, “Black Mirror”, “The OA”. Ma principalmente si attengono a formule provate e testate da ciò che i loro algoritmi predicono. “Stranger Things”, per quanto mi piaccia, ricicla la nostalgia degli anni '80 e sebbene non ci sia nulla di male in questo, sento che le piattaforme si stanno ritirando da confini che dovrebbero esplorare di più».

Zero Calcare firma il poster del Trieste Science+Fiction Festival

Quali sono i Paesi più interessanti oggi nella sci-fi?

«Una volta era una vera “festa mobile”, che includeva ora il Sud America, ora l’Asia. Adesso il genere è di tutti, e ogni Paese, dalla Finlandia all'Argentina al Messico, sta cimentandosi con il lontano futuro».

Come sta il cinema di fantascienza italiano?

«Sono un grande fan del cinema italiano di genere, e ho scritto libri che lo provano. Amo “Terrore nello spazio” di Bava e “I diafanoidi vengono da Marte” di Margheriti. Ne ho il poster incorniciato nel mio ufficio di Trieste. Oggi, in un paesaggio molto arido, vedo solo Gabriele Mainetti come grande speranza all'orizzonte. Sia “Lo chiamavano Jeeg Robot”, sia “Freaks Out” sono deo lavori mozzafiato e sarebbe meraviglioso vederlo perseverare nella fantascienza, che così chiaramente ama e in cui è così bravo».

Nel tuo lavoro di selezione quanto hai incrociato i temi recenti della pandemia e delle guerre?

«Più la pandemia che le guerre, in realtà. Ci sono ancora molti film che risentono degli anni di restrizione del Covid, dove i creativi hanno dovuto lavorare con ciò che avevano. Il festival di quest'anno mostra due facce di questa medaglia: “The Bunker” di Brian Henson racconta di una persona in un edificio vuoto che crea un’arma biologica, nel caso gli alieni invasori siano ostili; “Year 10” di Ben Goodger si svolge invece all’esterno in un mondo post-apocalittico. Entrambi i film usano bene le restrizioni, anche se per ragioni del tutto diverse».

Quali sono i punti di forza di questo Science+Fiction?

«Sicuramente l'accento sui nuovi talenti emergenti. Oltre ai citati Henson e Goodger, Chris Reading con “Time Travel Is Dangerous”, Boston McConnaughey e Renny Grames con “Alien Country”, Michael Felker con “Things Will Be Different”, Mike Hermosa con “The Invisible Raptor”, Calvin Lee Reeder con “The A-Frame”, Clark Baker con “Test Screening” sono tutti registi al primo o secondo film, tutti unici, tutti con qualcosa di originale da dire, e tutti nomi che si sentiranno molto in futuro». —

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