Jackie resuscita con Larrain

Il regista spinge l’identificazione fra personaggio e attrice fino a un audace azzardo
Di Paolo Lughi

Pablo Larrain, quarantenne maestro cileno, è il regista del cinema sudamericano oggi più amato dai cinefili, e fra i nuovi autori uno dei più amati in assoluto. In particolare ha realizzato di recente tre capolavori come “No – I giorni dell’arcobaleno” (2012), “Neruda” (2016) e questo “Jackie”, ognuno con una sua marcata identità eppure in fondo simili tra loro, dei quali è interessante osservare le caratteristiche comuni.

Tutti e tre i film ricostruiscono dettagliatamente significativi fatti storico-politici, dalla vittoriosa campagna referendaria dell’88 contro Pinochet (“No”), all’esilio dal Cile del poeta Neruda negli anni ’40, fino all’omicidio del presidente Kennedy del ’63, così come fu vissuto dalla vedova Jaqueline nei giorni immediatamente successivi. Tre vicende in cui era in gioco la democrazia di un paese, o perché poteva essere riconquistata oppure persa o ancora messa in pericolo, con al centro protagonisti di cui viene resa evidente tutta la complessità umana, dal coraggio alla fragilità, dall’altruismo all’egoismo. Tre storie infine rappresentate con uno stile cinematografico particolare, capace di ricostruire un’atmosfera d’epoca, che superficialmente potrebbe essere definito “vintage”, ma che invece riesce a far viaggiare lo spettatore emotivamente nel tempo.

Partiamo da quest’ultimo aspetto per spiegare il singolare fascino di “Jackie”. Quando vediamo qui le immagini sgranate e in bianco e nero di un documentario tv, con la silhouette della storica First Lady che si aggira nelle stanze della Casa Bianca e le illustra al pubblico, siamo portati a pensare che si tratti di un filmato originale. Presto ci accorgiamo però (ma solo dal volto della straordinaria interprete Natalie Portman) che non siamo in un documento del passato, ma sempre nel film di Larrain, che spinge l’identificazione fra personaggio e interprete fino a questo audace azzardo. Che rischierebbe di cadere nel ridicolo se non fosse accompagnato dalla ferma volontà dell’autore di avvicinarsi il più possibile (letteralmente, con continui primissimi piani) ai pensieri e ai sentimenti di quella donna al centro del mondo, che vide il mondo crollarle addosso. Coerentemente a ciò, con una sorta di miracolo artistico Larrain sembra far resuscitare a poco a poco Jackie davanti ai nostri occhi, da una parte con immagini a bassa definizione che sembrano un’archeologia del presente, dall’altra con composizioni perfette che ci riportano agli anni ’60 con tutta il loro colorato e inconfondibile modernariato.

Ma questo realismo paradossale e spiazzante non è affatto un’“operazione nostalgia”. Il pluriraccontato omicidio Kennedy viene riesaminato anche per la sua attualità (come accadeva in “No” e “Neruda”), soprattutto in rapporto al ruolo “democratico” dei media, che può non essere molto diverso tra la tv di ieri e il web di oggi. Nella sua battaglia per far sapere la verità, Jackie dice al giornalista (nell’intervista che fa da cornice al film) che l’opinione pubblica non si formava più soltanto con ricostruzioni scritte a posteriori sui giornali, ma direttamente con le immagini tv, «con cui ognuno può farsi un’idea di come sono realmente le cose» (come oggi avviene col web, che spesso si vede a bassa definizione proprio come i vecchi filmini amatoriali).

E come nei precedenti film di Larrain, ha infine un rilievo straordinario, pari alla vivacità dell’apparato narrativo (denso di incroci, flashback, documenti con immagini povere), l’intensità dell’aspetto umano e psicologico, che assume un significato universale. Come viene detto a un certo punto a proposito dei Kennedy, anche quelli di Larrain «non sono personaggi da favola, ma persone che hanno affrontato le avversità e le hanno superate».

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