La carica dei nuovi mostri tra zombie e morti viventi la paura corre sullo schermo

di Beatrice Fiorentino
Dire “horror” non basta, che tipo di horror? È più spaventoso uno zombi, un vampiro o un serial killer? Oppure un bambino dal volto angelico posseduto da spiriti maligni? Entrereste mai in una casa infestata? Magari edificata sul terreno in cui una volta sorgeva un cimitero indiano cosa che, si sa, non è mai una buona idea... La “Guida al cinema horror – il new horror dagli anni Settanta a oggi” (Odoya Edizioni, pagg. 670, euro 28), in uscita il 27 agosto, ne ha per tutti i gusti e promette di soddisfare la sete di brivido anche dei più “assatanati”. I quattro autori del volume Walter Catalano, Roberto Chiavini, Gian Filippo Pizzo, Michele Tetro definiscono e catalogano ogni possibile traiettoria della paura del cinema moderno: mummie e licantropi, streghe e vampiri, Halloween e altre festività dall’alto potenziale orrorifico fino ai più estremi slasher e torture porn.
Si parte dagli anni ’70, decennio spartiacque che ha segnato la fine del cinema classico e la nascita del “Nuovo Cinema Americano”, quando alcuni giovani registi si affacciarono alla settima arte in declino rivoluzionando la “politica” hollywoodiana e il concetto stesso di fare film. Cambiò un po’ tutto e non solo nel genere horror. In termini generali si andò verso una maggiore adesione alla realtà, la violenza divenne più esplicita, gli eroi senza macchia cominciarono a mostrare il loro lato più umano e dolente. Come il western, il poliziesco e la fantascienza aggiornarono i propri stilemi adeguandosi ai gusti del pubblico e ai nuovi indirizzi autoriali e produttivi, così anche il gothic horror di stampo vittoriano finì per essere accantonato e con esso il modello classico fino ad allora adottato, in particolare dalle case di produzione Hammer, in Europa, e dalla Aip negli Usa. I “gentlemen” del brivido, gli attori Vincent Price, Christopher Lee e Peter Cushing, protagonisti allora indiscussi, dovettero (malvolentieri) cedere il passo mentre la rivoluzione investiva il genere non solo in termini visivi ma soprattutto tematici. Introducendo con inedito realismo valenze religiose, politiche, sociali, antropolgiche e infrangendo più di qualche tabù, le produzioni indipendenti del cosiddetto “New Horror” assicuravano agli spettatori quello “shock” che in loro si voleva provocare.
Qualche esempio? Primi tra tutti “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski, “La notte dei morti viventi” di George A. Romero, “L’esorcista” di William Friedkin, “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper, “Il demone sotto la pelle” di David Cronemberg. Chiarissimi esempi di come il genere rinnovato si sapesse rapportare al presente offrendone un’immagine riflessa che anche sotto la lente deformante della paura riusciva sempre a imporre la sua carica eversiva, il messaggio esplicitamente antirazzista e anticapitalista, le mutazioni sociali, la rivoluzione sessuale e perfino l’incubo che si nasconde dietro all’American Dream.
Andando incontro a un lettore non necessariamente esperto della materia e affidando a lui il compito di scegliere i sentieri in cui preferisce addentrarsi, il volume. si offre come una guida, un catalogo che avanza analizzando i temi e sottotemi più esplorati dal new horror in rigoroso ordine alfabetico. Dalla a come agorafobia, alla scoperta della natura e dei suoi luoghi più selvaggi, boschi, strade o deserti, dove talvolta si può consumare l’orrore (“Un tranquillo weekend di paura”, “The Wicker Man”, “Le colline hanno gli occhi”, “I guerrieri della palude silenziosa”, “Just Before Dawn”, “Misery non deve morire”, “Wrong Turn – il bosco ha fame”). E procedendo via via attraverso le categorie “bambini”, “body horror”, “fantasmi”, “found footage”, “giocattoli”, “mummie” e molte altre (in totale sono 31) si finisce alla z di zombi, morti viventi declinati in molteplici accezioni dal classicissimo “La notte dei morti viventi” di G.A. Romero fino al più recente “28 giorni dopo” di Danny Boyle, comprese le numerose parodie.
In questo perfetto itinerario della paura, un’intera sezione è dedicata ai “Brividi all’italiana” dove si incontrano i nomi di Riccardo Freda, Antonio Margheriti e, naturalmente, di Mario Bava, identificato come colui che negli anni ’60 nel suo “giallo all’italiana” ha precorso i tempi e i temi del New Horror. “La ragazza che sapeva troppo”, omaggio del 1963 al giallo hitchcockiano classico, e soprattutto “Sei donne per l’assassino”, dell’anno seguente, sono universalmente riconosciuti dalla critica come antesignani del futuro sviluppo del genere. Così come “Reazione a catena”, che nel 1971 anticipa la moda dello slasher che si affermerà in America nel decennio successivo.
In tema di spaghetti- horror, non potevano mancare all’appello: il maestro (decaduto) Dario Argento, la cui produzione degli anni ’70 e ’80 (“L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code”, “4 mosche di velluto grigio”, “Profondo Rosso”, “Suspiria”, “Inferno”) ha ispirato un’intera generazione di cineasti d’oltreoceano (John Carpenter, Joe Dante, Tob Hooper, George Romero e Sam Raimi); il controverso Lucio Fulci (“Non si sevizia un paperino”, “Sette note in nero”), letteralmente saccheggiato dai citazionisti Tarantino e Raimi e osannato almeno quanto contestato da opposte fazioni della critica italiana e internazionale per la sua tendenza a mescolare irriverentemente i generi; infine Pupi Avati, che da subito perseguì una sua linea di horror “autoriale”, dando il meglio di sé quando sfrutta le ambientazioni padane legate alle sue origini (“La casa dalle finestre che ridono”). Un po’ come accade all’udinese Lorenzo Bianchini, annoverato tra i più interessanti esponenti del cinema horror contemporaneo. Quel particolare senso del mistero e dell’orrore che attraversa la sua filmografia dall’esordio “Lidris quadrade di tre” (2001) al più recente e pluripremiato “Oltre il guado”, si esprime attraverso il territorio friulano e la sua lingua.
Per concludere il volume, da loro stessi definito “un mostro tetracefalo” che si muove per “tenebrosi sotterranei, angusti corridoi e tetre scalinate fino al covo del mostro”, gli autori ipotizzano nuovi possibili sviluppi del genere. Magari - o forse inevitabilmente - incrociando il destino della rete e la televisione per non morire di asfissia sotto a una valanga di sequel e remake ormai privi di identità. Senza abdicare, ma accettando uno scambio che a prescindere dalla misura dello schermo potrebbe restituire al racconto un po’ di vitalità. Parafrasando una celebre battuta del film “Zombi”: “Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere. Altrimenti si perde la guerra”.
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