La chicca di una “Sinfonia” per promuovere Grado con la voce di Biagio Marin

Da oggi al 24 luglio a Gorizia il Premio internazionale alla sceneggiatura Sergio Amidei. Sabato la proiezione del documentario inedito del ’53, riapparso a sorpresa a Vienna nel 1990

GORIZIA. Esiste probabilmente in Friuli Venezia Giulia uno spiritello scherzoso del cinema, che di tanto in tanto fa riemergere vecchie pellicole perdute di grandi artisti. Dopo il primo film di Orson Welles, “Too Much Johnson”, ritrovato a Pordenone nel 2013, ecco adesso riapparire a sorpresa dopo quasi 70 anni un inedito cinematografico di Biagio Marin. Il titolo è “Sinfonia gradese”, ed è un documentario di 18 minuti sulla bellezza della sua amata ”isola d’oro”, con la voce narrante del grande poeta, realizzato insieme a Lucio Rocco e Silvano Mottola.

Questa vera rarità, girata nel 1953, sarà proiettata in pubblico per la prima volta dopo il suo ritrovamento, in versione restaurata digitale, sabato alle 21.15 al Parco Coronini Cronberg, nell’ambito del 38°Premio Amidei che inizia oggi a Gorizia (il film è incluso nella sezione “Racconti privati, memorie pubbliche: Lost and Found”). Il laboratorio “La Camera Ottica – Film and Video Restoration” dell’Università di Udine ha curato il restauro della pellicola in 16mm, provvedendo alla realizzazione della copia digitale per la proiezione.

Ma come è potuto accadere che un film di una gloria della nostra letteratura, anche se breve e realizzato per scopi promozionali, sia riscoperto solo oggi? Facciamo un passo indietro e ricostruiamo la curiosa vicenda, come ci è stata raccontata dagli organizzatori del “Premio Amidei”. Nel 1990 un gradese, a Vienna per lavoro, vede casualmente una pellicola Agfa con l’etichetta “Grado”, finita chissà come sulle bancarelle di un mercatino. Il commerciante è un turco che inizialmente chiede 700mila lire per quella misteriosa “pizza”, ma poi si accontenta di 60mila dopo la solita trattativa.

Però per visionare quella pellicola ci vuole un’attrezzatura professionale, e così il contenuto resta nascosto per molto tempo. Ci vorranno diversi anni perché il film sia depositato al Dams di Gorizia, corso di studi in discipline dell’audiovisivo dell’Università di Udine, noto per il suo attivo laboratorio, dove viene esaminato con attenzione. Qui Leonardo Tognon, appassionato di cultura gradese che segue l’operazione di recupero, riconosce la voce narrante come quella di Biagio Marin. Ci vorranno poi gli interventi determinanti del Kinemax di Gorizia, del Premio Amidei e della Fondazione Carigo, oltre naturalmente all’Università, perché quel film perduto torni a vivere, rivelando un aspetto inedito dell’arte del poeta gradese.

Il film, nella descrizione che ci viene fatta, costituisce una vera e propria sinfonia visiva e sonora, in cui le immagini di Grado e il racconto di Marin, che imprime alle parole una cadenza quasi poetica, si fondono e si valorizzano a vicenda. Inoltre, vi è una terza variabile artistica, che non riguarda né il cinema, né la poesia, bensì la musica, che consiste di cori composti, tra gli altri, da Cesare Augusto Seghizzi, che fin dagli anni ’20 fu amico di Marin e ne musicò le poesie.

La pellicola si sviluppa dando vita all’elegia di una Grado passata, del suo paesaggio urbano e antropologico, anche se il suo intento primario pare fosse solo quello promozionale. Quelli sono gli anni in cui prende slancio l’itinerario poetico di Marin legato alla sua terra. Sono gli anni in cui pubblica “I canti de l’isola” (1951), dove giustifica l’adozione del dialetto come lingua della poesia. Però Marin era anche stato, negli anni ’20 e ’30, direttore dell’Ente turistico di Grado, ed era anche un grande esperto di fotografia.

Occorre inoltre ricordare che all’epoca si era nell’età aurea del documentario italiano. Dopo le tragedie della guerra, questi piccoli film diventano importanti frammenti conoscitivi che toccano anche soggetti “nobili” e coinvolgono grandi autori. È sempre del 1953, ad esempio, “Bora su Trieste” realizzato dall’importante documentarista Gianni Alberto Vitrotti in collaborazione col fratello Franco, dove il regista riesce a testimoniare con spettacolarità e ironia gli effetti della bora, quasi "imprigionandone” sia la forza, sia lo speciale significato che questo vento ha per i triestini.

È questo anche il periodo in cui Carlo Ludovico Ragghianti realizza una ventina di documentari d’arte, mentre otto sono i film sull’arte di Luciano Emmer, il quale sviluppa in particolare una dimensione lirico-creativa. E per altri grandi, all’epoca agli esordi come Michelangelo Antonioni (“La funivia del Faloria”, 1950), Luigi Comencini, Francesco Maselli, Dino Risi, Valerio Zurlini, il documentario è luogo fondamentale di prima elaborazione espressiva, in cui emergono elementi di personalissime ricerche d’autore.

In “Sinfonia gradese” sembra quindi riverberarsi quest’epoca d’oro del documentario, dove il paesaggio italiano, fresco di neorealismo, sembra evadere naturalmente da ogni cliché. Nella “prosa cantata” di Marin, il mare e il centro storico di Grado diventano così “paesaggi dell’anima”, ripresi spesso in campo lungo, in una dimensione insieme realistica ed emotiva. Come osserva Elvio Guagnini, «l’indicazione di ‘paesaggi dell’anima’ vale per brani dove Marin, effettivamente, coltiva il genere della rappresentazione paesistica». E tale intento trova una precisa e appassionata definizione nell’incipit di una sua prosa intitolata “Il paesaggio” (1948): “Parlare del volto della propria terra è come parlare del volto della propria madre e della bellezza della propria amata”.

 

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