La La Land, la vita è un musical

Grande sfarzo ma Damien Chazelle si ferma sulla soglia dell’ottimo intrattenimento
Di Beatrice Fiorentino
LLL d 29 _5194.NEF
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Sette Golden Globe vinti e addirittura quattordici candidature agli Oscar, di cui la maggior parte andrà sicuramente a segno per "La La Land", film di apertura all'ultima Mostra del Cinema di Venezia (ormai da qualche anno posizionamento portafortuna nella corsa ai premi dell'Academy). Difficile resistere al glamour, ai colori sgargianti, all'atmosfera sofisticata e alla love story romantica e un po' fragile tra Mia, aspirante attrice che serve il caffè al bar degli Studios, e Sebastian, jazzista "maudit" costretto a suonare nei ristoranti per sbarcare il lunario. Quasi impossibile, durante la prima mirabile sequenza in cinemascope, non farsi prendere dalla voglia di ballare nel bel mezzo di un ingorgo stradale, come accade nei buoni musical, quando coreografie mozzafiato irrompono nella monotonia della realtà .

È questo che il regista Damien Chazelle (quello di "Whiplash") sembra promettere: riportarci all'età dell'oro dei musical di Vincente Minnelli e Jacques Demy, di Bob Fosse e Stanley Donen, con un'estetica che si colloca a metà tra l'omaggio citazionista e il riadattamento in chiave moderna. Eppure nel meccanismo di questo piacevolissimo congegno "mainstream", qualcosa s'inceppa. Forse negli elementi essenziali del musical, perché le coreografie non sono poi così mozzafiato e due star come Emma Stone e Ryan Gosling, che non sono ballerini né cantanti e neppure scalfiscono l'eleganza di Ginger Rogers e Fred Astaire o Gene Kelly e Judy Garland, fanno bene ma entro i loro limiti, oppure perché i motivetti di Justin Hurwitz, per quanto gradevoli, difficilmente competono con le composizioni senza tempo di Gershwin, Berlin o Bernstein. Non è poco, quando ti misuri con il cinema di genere e gli imprescindibili canoni di riferimento. Che nel caso del musical sono le performance musicali, canore e danzerecce. E sorprende che proprio Chazelle, che in "Whiplash" aveva spinto il concetto di "performance" fino alle estreme conseguenze, faccia invece passare questi aspetti in secondo piano, dimenticando addirittura di avere per le mani un musical, nella seconda parte del film, in cui preferisce invece concentrarsi sulla sua personale ossessione per il successo. Ma i tempi sono cambiati e il confronto con le glorie del passato forse ha poco senso. Solo i sogni resistono, immortali, a L.A., Los Angeles, città delle stelle ("City of stars" fischietta e poi canticchia Ryan Gosling nel tema musicale principale). E pur di realizzarli, quei sogni, si finisce per perdere qualche pezzo per strada, se stessi o l'amore, il prezzo da pagare quando a vincere è l'individualismo del nuovo millennio. C'è un passaggio preciso in cui "La La Land" tenta il colpo d'ala: quando John Legend, nei panni di Keith, offre all'amico Sebastian un posto di pianista nella sua band. In quel momento Chazelle utilizza il jazz per parlare indirettamente di cinema. Dice: "Il jazz sta morendo (leggi il cinema sta morendo) e il mondo lascia che muoia perché ormai ha fatto il suo tempo. Ed è per colpa della gente come te, che vive nel passato, se muore". Ma a questa affermazione che suona come una sfida, Chazelle, a differenza del collega Baz Luhrmann, non risponde con un'esplosione di cinema "nuovo". Resta invece bloccato in una forma ibrida, come ibrida è la musica di Keith, che si snatura per andare incontro ai gusti del pubblico. Ecco, anche "La La Land" è intrappolato nello stesso compromesso tra la celebrazione dei fasti del passato e una certa superficialità ammiccante del presente. Un compromesso che è garanzia di successo, ma anche il punto in cui si rinuncia a rincorrere il grande cinema per fermarsi alla dimensione dell'ottimo intrattenimento.

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