La Shirley Temple del teatro di Zagabria dal palcoscenico ad Auschwitz

Questo libro nasce da una rinuncia, che l’autore stesso confessa in una nota a fine volume: «Da tempo desideravo scrivere la biografia di Lea Deutsch. Un’attrice famosa, assassinata quando non aveva ancora sedici anni. Feci delle ricerche ma, invece di una breve biografia, scoprii, forse, le ragioni per cui la gente non voleva parlare di Lea Deutsch. La gente vuole dimenticare, e perfino questo è meglio di qualsiasi forma di autogiustificazione». Ma la forza di uno scrittore sta nella creatività. Non è costretto a fermarsi, come può accadere allo storico che non trova i documenti sui quali lavorare. Lo scrittore può plasmare il suo personaggio con la fantasia. Così ha fatto Miljenko Jergović dando vita alla sua Lea Deutsch. La chiama Ruta Tannenbaum, nome e cognome che danno il titolo al libro, edito quest’anno da Nutrimenti (318 pagine, euro 18,00) e in uscita domani.
Si tratta della prima traduzione italiana dell’opera di Jergović (apparsa nel 2007), realizzata da Ljiljana Avirovic, che è ormai “la” traduttrice di questo grande scrittore, perché riesce a rendere in modo efficace nella nostra lingua la sua prosa spumeggiante, che ama giocare con le parole.
Sono gli anni Trenta, la cornice è Zagabria, più precisamente via Gundulić, dove peraltro abitava realmente Lea Deutsch. I protagonisti sono i membri della scombinata famiglia ebrea di Moni Tannenbaum, con il quale l’autore spesso dialoga: “Eh, eh, Salamon, il buon Dio non t’ha dato nemmeno tanto cervello quanto zafferano c’è nella polenta dei poveri!”. Moni ha avuto la fortuna di sposare la bella e ricca Ivka Singer, donna dai grandissimi occhi, che la figlia Ruta erediterà. Matrimonio funestato dalla concomitante morte di Antun, figlio di Amalija e Radoslav Morinj, addetto agli scambi della stazione ferroviaria di Novska. Sono vicini di casa cattolici di Moni e co-protagonisti della narrazione. Poi c’è il nonno Abraham Singer, stimato commerciante con il negozio in via Mesnićka, e intorno a loro una stralunata Zagabria, «grande e bella, una piccola Vienna, una città nella quale puoi ancora incontrare dei signori con i bakenbarde come ai tempi di Francesco Giuseppe; Zagabria dove tutti conoscono tutti ma si salutano con un cenno solo i nemici acerrimi o i veri amici, agli altri si passa accanto in silenzio, così come in silenzio si passa accanto alle vetrine o alle facciate, perché tale è il tacito accordo tra gli zagabresi ed è pure un modo per creare l’illusione sulla grandezza di una città in cui ci sono più persone che non si salutano, come quella vera, grande città che è Vienna».
Queste righe rendono lo stile di Jergović, che miscela surrealismo e ironia e riprende alcuni moduli narrativi di Singer, ovvero il polacco Isaak Bashevis, e di Ivo Andrić, anche lui bosniaco di ascendenze croate. Una Zagabria in cui ribollono nostalgie austro-ungariche, pulsioni comuniste, peloso lealismo ai Karađorđević, nazionalismo ustascia e antisemitismo.
Sarà Amalija, alla quale malvolentieri Ivka, che la considera pazza, affida la figlia, a far conoscere il teatro alla piccola Ruta, che mostrerà immediatamente una formidabile propensione per il palcoscenico, tanto da diventare in breve tempo una diva, come fu in effetti Lea Deutsch, la “Shirley Temple” della Croazia. La sua fama travalica i confini e reciterà anche a Vienna, mancando per poco la presenza del Führer, visto che c’è già stata l’Anschluss. Per farlo però dovrà cambiare nome: il nome ebreo Ruta Tannenbaum diventa l’ariano Christine Horvath per interpretare Rosie, la bimba protagonista della “Rosa rossa di Damasco” della scrittrice croata Hilda Teute, fervente simpatizzante del Nazismo.
Ruta forse non capisce l’umiliazione che le viene imposta, è ancora una ragazzina. La capirà quando sarà cacciata dal Teatro Nazionale e allora “nella primavera del 1943 la principessa di via Gundulić, il numero civico non è più importante, mise in moto una malia per diventare invisibile, ma non si sa con l’aiuto di chi o di quale dio”.
Ma non le servì. Partì anche lei per il viaggio senza ritorno. Come non era servito a suo padre abbandonare il giudaismo, cambiare personalità, diventando il nobile Emanuel Keglević, che pontificava nelle bettole di Črnomerec e Kustošija. La storia non li risparmia, l’odio per i “cifut” non si è mai placato, la sinagoga sarà distrutta. Degli ebrei a Zagabria non rimarrà quasi nulla, se non un settore del Mirogoj, il bel cimitero in collina della capitale. E sulla Shirley Temple croata si chiuderà il tragico sipario di Auschwitz. —
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