L’Antigone che parla creolo va al di là della morte e muta la tragedia in felicità

di CLAUDIO MAGRIS L’Antigone di Morisseau-Leroy è scritta in creolo, il linguaggio franco-africano degli schiavi neri nelle isole caraibiche e dei loro padroni bianchi, i Bekè di origine soprattutto...
Di Claudio Magris

di CLAUDIO MAGRIS

L’Antigone di Morisseau-Leroy è scritta in creolo, il linguaggio franco-africano degli schiavi neri nelle isole caraibiche e dei loro padroni bianchi, i Bekè di origine soprattutto bretone e normanna. Linguaggio di distanza sociale ma anche di mescolanza, che attraversa come un passeur frontiere sociali e culturali. Linguaggio nato per spontanea e sanguigna deformazione di lingue diverse, che si trasmettono reciprocamente tradizioni e valori; variato da isola a isola nel mar dei Caraibi, vissuto come un gergo o un dialetto e perciò ora amato quale espressione immediata e sentimentale ora disprezzato quale voce bassa e popolare - ad esempio dai neri dopo l'abolizione della schiavitù, per scrollarsi di dosso l'origine servile. Linguaggio che ha dato origine a una vasta letteratura, talora folclorico-pittoresca ovvero oggettivamente falsa nel suo colore sentimentale e talora autentica, creativa e originale, "altra" nel senso forte della creazione poetica. Per usare un'antitesi spesso ribadita da Biagio Marin, la letteratura creola è talvolta "dialettale" (ossia colore e calore locale, pre-poetico) e talvolta letteratura anche grande "in dialetto" ovvero in un determinato idioma ignaro di folclore e sentimentalismi e capace di grandezza, come il dialetto gradese di Marin o, come ripeteva spesso quest'ultimo, quello eolico di Saffo.

I due drammi di Morisseau-Leroy sono due autentici testi poetici in lingua creola, aliena da ogni colore locale. Il più possente dei due è l'Antigone creola, ma Re Creonte ha un'originalità particolare. I nomi sono gli stessi del mito greco, tranne quelli degli dei; l'ambiente è diverso. Tebe è il nome di una città (un villaggio?) verosimilmente dei Caraibi, capanne e qualche colonna che può evocare un peristilio. La vicenda è la medesima: il divieto di seppellire il ribelle traditore della sua città, la disobbedienza di Antigone e i tentativi di impedirla da parte di Creonte e, all'inizio, della sorella Ismene, come in Sofocle. C'è la dolcissima e toccante fermezza di Antigone, la sua trasgressione, la sua storia d'amore con Emone figlio di Creonte, la sua morte come vuole la legge e le sciagure che questa morte provoca nella famiglia di Creonte stesso. Il ruolo tradizionale del Nunzio è assunto dal narratore, il Conteur che - dapprima nella stiva delle navi negriere affollate di schiavi in catene e più tardi, nelle piantagioni, alla fine della giornata - raccontava agli schiavi le storie e le tradizioni del loro mondo perduto, salvandolo dall'oblio e trapiantandolo in un mondo diverso.

Diversi sono gli dei; non le divinità greche dell'olimpo ma quelle del Vodù.

Erzulie, dea della bellezza e insieme mater dolorosa, Afrodite e Madonna; gli spiriti (i loas) luminosi e olimpici (quelli appartenenti alla categoria rada) oppure stoni, sotterranei e implacabili (quelli appartenenti ai pedro, duplicità che talora sussiste nello stesso spirito Papa Legba, divinità dei crocicchi (e un crocicchio che il giovane Edipo, nel mito greco, incontra e uccide il padre) . Dio (bondye) è assente, bonario e pacifico ma riluttante ad immischiarsi con le vicende umane.

Ma forse questo differente mondo divino-demonico fa sì che, a differenza di Re Creonte, l'Antigone creola non sia una tragedia. Non perché non ci sia colpa, ma perché non c'è sostanzialmente la morte, e senza quest'ultima pure la colpa, fatale e ineludibile, perde molto del suo peso. Goethe ammirava la tragedia di Sofocle - che in quegli anni Hölderlin riscriveva con una potenza assoluta - ma non amava il legame di Antigone col mondo dei morti. Per lui la fedeltà di Antigone ai morti - e ai propri morti, come il fratello Polinice - era un legame di sangue, di parentela e di stirpe contrapposto ai superiori vincoli della legge e della Polis, alla stessa universalità umana. Legami che proprio la tragedia greca aveva subordinato luminosamente ai valori superiori della civiltà e della convivenza civile, potremmo forse dire della democrazia, quando il matricida Oreste viene assolto e le Furie del suo oscuro inconscio che lo straziano diventano Eumenidi, benevole.

Ma nel mondo Vodù non esiste la morte quale assoluta alterità,negazione, privazione. Morti e vivi convivono familiarmente, s'incontrano, possono farsi del male e del bene; sono diversi, ma i morti non sono spariti né assenti. Antigone e l'amato Emone, dopo l'esecuzione dell'una e il suicido dell'altro, vivono in una sorta di ebbrezza felice, come in un incantevole arcobaleno che unisce il cielo e la terra, l'aldiqua e l'aldilà, parole che non hanno veramente più senso perché non c'è un "qua" e un "là", bensì una luce di vicinanza e lontananza, un'azzurrità di cielo e di mare che avvolge tutto e si identifica con l'amore.

Una tragedia che finisce in qualcosa di simile alla felicità non è tragedia. Lo è invece Re Creonte, testo dai tratti surreali - Creonte che uccide veri o presunti nemici a colpi di pistola - e poeticamente inferiore al precedente, ma affascinante per una grande intuizione tragica. Creonte - tante volte ritratto quale figura abbastanza convenzionale, magari compreso da alcuni autori nelle sue motivazioni ma quasi mai vero protagonista tragico - in quest'opera è una figura complessa ed oscura, interiormente devastata e stordita in un torpido letargo forse voluto. Il dramma comincia col risveglio di Creonte da anni di sonno - quasi un oblio cercato in una specie di coma profondo. Dalla morte di Antigone, avvenuta per suo volere ma da lui in fondo non voluta, ha dormito, non ha vissuto; è stato spento, forse nell'inutile tentativo di ottundere il disagio, il rimorso, l' infelicità per ciò che è successo, per ciò che ha commesso. Creonte non fa - non vuole o non può fare - i conti con ciò che è accaduto; vive la sua esistenza, passato e presente, a strappi, lampi che presto si oscurano, mentre intorno a lui la reggia, la corte, il potere sono un luogo di veri o vaneggiati intrighi e tradimenti, sospetti, terrori e delitti, forse figure di rimorso. Anche i personaggi dell'Antigone creola ci sono e non ci sono, forse presenze reali forse fantasmi fugaci; i tempi si accavallano e si confondono. Sarebbe giusto considerare - e soprattutto mettere in scena - i due testi come un'unica opera, in una rielaborazione o rifacimento che desse il senso della loro continuità e reciproca dipendenza.

Pure in Re Creonte, come nella tragedia precedente, c'è Tiresia, accecato capace di prevedere il futuro ma soprattutto - intuizione grandiosa, che naturalmente è greca ma che l'autore riprende con efficacia - figura dell'inutilità di prevedere il futuro, che cade addosso, schiaccia e strazia ugualmente sia che lo si ignori sia che lo si conosca o si creda di conoscerlo. Il potere pretende addirittura di forgiare il futuro; per questo il suo destino è la demenza.

(2 - Fine. La prima puntata è stata pubblicata venerdì 20 marzo)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo