L’aria tersa e i colori Così vita e anima entrano nella pittura

Fu il vertice del primo Rinascimento veneziano Uno stuolo di allievi cresciuti nella sua bottega
Di Virginia Baradel

di VIRGINIA BARADEL

Da qualsiasi punto di vista si affronti la pittura di Giovanni Bellini, vuoi per stile, tecnica, tipi iconografici, generi, implicazioni filosofiche, egli rimane sempre al vertice della pittura veneziana del primo Rinascimento. Ogni approccio alla materia naviga intorno a colui che mutò la luce d’intaglio del tardogotico (dei Vivarini e del padre Jacopo) in aria tersa e colori luminosi. Bellini è stato il punto di non ritorno, il principio della modernità di Giorgione e Tiziano, il mirabile vaso di fusione di Antonello da Messina e Piero della Francesca, l’inventore del sentimento dell’umana, non men che divina, tenerezza al punto d’incontro tra meditazione e malinconia. Il suo sensibile umanesimo, che conferisce vita e anima alle figure, cancella ogni traccia del realismo gotico nel segno di una superiore conciliazione tra uomo e natura. Giambellino ebbe uno stuolo di allievi e imitatori: generazioni di epigoni gli devono stilemi, fortuna e committenze. Tra i belliniani confermati dalla storia e dalla critica vi è una prima linea di pittori con forti personalità che hanno inoltrato il verbo belliniano verso lidi originali, talvolta inconfondibili, e non parliamo solo di Giorgione e di Tiziano, ma anche di Cima da Conegliano e Vittore Carpaccio; e una seconda linea di pittori meno noti ma in grado di unire ai meriti individuali, una persistente fedeltà ai canoni del Maestro forse per devozione, o per pigrizia o per insufficienza di estro inventivo. La storia dell’arte li classifica come “minori”, termine che non è necessariamente una “diminutio”, ma un posizionamento all’interno di una galassia di seguaci col vantaggio, poiché l’individualità non fa da scoglio, di considerarli anche tramite di connessioni con altri maestri ed altre scuole. La mostra di Conegliano ne prende in considerazione un certo numero con l’intento manifesto di indagare su come il prototipo abbia fatto scuola, abbia irradiato la sua magnitudo, permeato un ambiente, trasmesso l’empatia di una disposizione spirituale.

Certo non si può dire, né mai si potrà con certezza, come funzionava la bottega belliniana; difficilmente si potranno individuare ruoli e competenze e giungere a conteggiare le influenze. Di certo si sa che era bottega che possedeva anche carattere di scuola dove i giovani imparavano a dipingere non solo per via di apprendistato tecnico: i celebri album di disegni di Jacopo avrebbero in tal senso una funzione propedeutica. Nei poderosi volumi di Fritz Heinemann editi da Neri Pozza negli anni Sessanta, i belliniani erano un esercito, ma la puntuale osservazione delle varianti rispetto all’opera alfa di Giovanni e dei suoi migliori discepoli, ne limita i confini. La derivazione diventa in genere più permeabile al gusto della committenza, addomestica l’ermetismo e il sublime accordo di interiorità e lontananza propri del maestro. Dunque nei minori si va a cogliere, ad esempio, l’evidenza della linea che stecca la fusione belliniana del volume-colore e rimanda all’esistenza di sagome a disposizione nella bottega; la ripetizione dei tipi e dei volti che diventa convenzione iconografica; i rapporti tra luci e ombre, volumi e sfondo che diventano schemi; i colori che accentuano i valori timbrici su quelli tonali. L’applicazione dei cliché garantisce l’immediata riconoscibilità del modello ed è questo che conta per la moda. E pensare che Bellini si era negato a Isabella d’Este perché non amava le interferenze della committenza.

Dunque la mostra presenta una galleria di versioni che partono dai capisaldi belliniani, il primo dei quali non può non essere la Madonna con Bambino. Julia Kristeva ne diede un’acuta versione psicanalitica che coglieva nella “frontiera muta” di quelle Madonne, i segnali del rapporto mancato con una madre che anche la biografia dà come non pervenuta. La vita e i sentimenti che Bellini conferisce al soggetto attraverso la pittura, sarebbero una specie di risarcimento, un modo specialedi fare i conti con la rimozione. Inconscio a parte, quelle Madonne assorte, sobrie e delicate, impastate di luce, ebbero una grandissima fortuna e non finiscono mai di suscitare desideri di approfondimento in ordine anche alla temperie morale e alla devozione in corso a Venezia, in specie di ascendenza domenicana, ben provvista di dottrina teologica e umanistica. Giusto per capire l’evoluzione e l’adattamento dei derivati, vediamo come Palma il Vecchio dipinga una Madonna che rivolge al Bambino uno sguardo tenerissimo, ben più accattivante degli originali, oltre a variegare la nettezza dei colori e della luce.

Altro tema centrale sono le “sacre conversazioni”, giustamente ribattezzate “devote meditazioni” visto che nessuno parla, con i santi raccolti intorno al trono di Maria. Composizioni complesse dove ancor meglio si colgono certe rigidità d’impianto spaziale e cromatico e dove ogni santo fa la sua parte nel devoto consesso ma anche in relazione al committente, come nella Circoncisione di Marco Bello o nella Madonna con Bambino e Santi del Santacroce. Un tipo fissato sino a diventare icona è l’Imago Cristi, mentre i ritratti sono forse soggetti a minori inerzie data la presenza diretta di un modello in posa come nel bel ritratto di giovane di Andrea Previtali.

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