L’arte, il poker, il biliardo e tanti amati cani. Da Milano a Trieste per scoprire la poesia

Il mestiere di gallerista che si incrocia con la quinta musa, fino ad approdare a New York Perché l’ultimo libro, “Pulcis in fundo”, è stato ora tradotto nel “Journal of Italian Translation”
Alessandro Rosada
Alessandro Rosada

Avrebbe potuto essere una giovane promessa della pallacanestro nazionale, Alessandro Rosada. È il motivo per cui ha vissuto molto a Milano, durante l’adolescenza, inserito nei cadetti della leggendaria Simmenthal. Ma non era quello il suo destino. Rientrerà a Trieste, ma dai 13 ai 17 anni vive appunto nella capitale lombarda, in un clima culturale intenso, quello degli ultimi bohémien milanesi, complice anche la galleria d’arte del padre, a Brera. Alessandro conosce gli artisti da vicino, Arturo Vermi, Agostino Ferrari, nomi rilevanti dello spazialismo e dell’informale: «La passione dell’arte astratta mi è venuta da lì», dice, lui che oggi dirige la galleria Torbandena, a Trieste.

Ma allora erano gli anni ’70, lontano da qui, quelli che oggi sono i quartieri patinati di Brera, a quei tempi vestivano altri sentimenti, un’umanità diversa, senza soldi ma pronta a fare colletta per mangiare insieme, critici, artisti, galleristi: «Un clima che ti rimane in testa, molto intellettuale ma anche leggero, da baldoria». Così conosce Emilio Tadini, in seguito farà la postfazione di un suo libro. Quindi ecco: la poesia. Forse presagita da quel primo grande amore, Monica Paolazzi, figlia del celebre poeta Antonio Porta: «Una ragazza bellissima, ci siamo incontrati in palestra, fu effettivamente un grande amore e tutt’ora ci sentiamo. Il padre invece era molto schivo, non troppo simpatico, un poeta che però mi piaceva molto». Forse da lì giunge l’attrazione per la quinta musa. Ma non solo. A Milano Rosada frequenta i più celebri avanguardisti, che nella galleria paterna erano praticamente di casa. Ma conosce anche la strada: «I miei protettori erano i pusher di Città Studi, ero una specie di mascotte. A 16 anni arrotondavo il mensile che giungeva da casa giocando a biliardo. O a poker», e nel frattempo inizia a scrivere poesie, dal timbro più ruvido che lirico, non senza ironia: «D’altra parte amavo Artaud e Kantor e Grotowski».

Insomma una poetica fisica e durissima. In giovane età scriverà anche un testo per Claudio Misculin e Maurizio Soldà. Il primo libro in versi è del 1983, per le edizioni della Torbandena: «Non ho mai proposto i miei testi ad altri, conoscevo bene Scheiwiller, Testori, ma volevo mantenere con loro un altro tipo di rapporto. Inoltre già allora immaginavo i miei libri sempre affiancati da un’immagine». Infatti il vero stimolo alla pubblicazione arriva dall’incontro con Oreste Zevola: «Mi resi conto che nei suoi disegni faceva lo steso lavoro che facevo io con le parole». A unirli poi c’è un altro codice comune: il grande amore per i cani. Non a caso Oreste Zevola è sepolto nel cimitero dei cani di Napoli. Da una parte il tratto “crudele” della parola in arte, dall’altra il grande amore per gli animali. Così esce “Bacioni da New York”, a cui segue un’altra plaquette con versi più distesi e immagini di Sergio Pausig, introdotta da Carolus Cergoly: «L’avevo conosciuto tramite Nora Baldi. Nora mi aveva scoraggiato a incontrarlo, a causa del suo brutto carattere». Invece Cergoly legge il primo libro di Rosada e ne è entusiasta. Da lì nasce una lunga amicizia, un carteggio e pure un testo dedicato al più giovane dei due poeti, che Rosada custodisce con affetto. Un miracolo se pensiamo che Cergoly alla fine non frequentava nessuno, a parte l’amico farmacista: «Già, non era amato dalla città», l’unico poeta, dopo Saba, ad aver pubblicato nella prima colonna della poesia italiana, Lo Specchio Mondadori. Nel 1991 arriva un’altra pubblicazione in sinergia con Zevola, “Una giornata di Superman”, crudele e ironico, riproposto tra l’altro anche in “Linea d’ombra” nel 1996, la celebre rivista di Goffredo Fofi.

Ad Arturo Nathan invece il poeta dedicherà “Ghiaccio del mare”, libro che nasce nell’occasione dei cento anni della sorella Daisy, di cui era molto amico. Oltre a frequentare gli artisti e gli intellettuali milanesi, legge Sereni, Porta, Cattafi, Erba. Tra i contemporanei apprezza Merini, Anedda, Gualtieri: «E il mondo poetico del nord, Brodsky, Mandel’stam, Achmatova, Szymborska, Tranströmer, Heaney». L’ultimo libro, “Pulcis in fundo”, è stato ora tradotto nel “Journal of Italian Translation” (Edizioni Bonaffini, pag 497, 18 dollari), qualificata rivista newyorkese diretta dallo stesso Bonaffini. Un fascicolo di cinquecento pagine in cui compare un’accurata selezione della migliore poesia e prosa italiana, da Mario Luzi ad Andrea Zanzotto. Ma non solo.

Ci sono anche nuove versioni di poeti stranieri, per mano di traduttori tra i più apprezzati, quali Marco Sonzogni o Anthony Molino. Quest’ultimo, già attivo per importanti case editrici americane (e traduttore, tra gli altri, di Valerio Magrelli), si è occupato di “Pulcis in fundo”: «Una versione inglese eccellente, che ha rispettato senso e ritmo», dice Rosada. D’altra parte basti un incipit: «Saranno giorni indimenticabili/quelli in cui la morte verrà respinta». Da Trieste a New York insomma, tramite il verso, ma grazie anche ai soggetti di quell’ispirazione: «I miei due cani, Lula e Yoko, hanno avuto il merito di farmi scoprire una parte di me che ignoravo, quella dell’affetto, della tenerezza e della protezione assoluta e reciproca». Nel frattempo Lula e Yoko potranno serpeggiare in America, forse più che a Trieste, poco frequentata poeticamente dal nostro. Del territorio ama un autore in versi, Francesco Indrigo, «Ottimo reader che vive a San Giovanni al Natisone». C’è ancora molto dentro i cassetti di Rosada, in un prossimo futuro forse metterà insieme tutti i suoi testi con un titolo preciso: «“Il libro delle crudeltà”, che dedicherei al grande amico e germanista Mario Specchio, anche lui amante della poesia e degli animali».

“Il libro delle crudeltà” quindi; si ritorna all’inizio, si ritorna ad Artaud, per rinnovarlo con uno dei più intensi stati emotivi. È una strana forma d’amore quella esperita per gli animali, tende a non avere mediazioni, tende a un codice estremo, di abbandono assoluto, forse perché l’animale non parla, l’animale, appunto, non sa mentire.

Leggendo Alessandro si capisce che talvolta anche l’umano ha questo dono. Almeno in versi. —

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