“Le cose che restano” di Ezio Bosso raccontano la passione di una vita

Federica Gregori



«Non siamo qui a santificarlo: è stato un personaggio non sempre facile, ne ha fatte di tutti i colori e mi piaceva proprio per questa voglia di vivere, anche esperienze un po' storte e complicate. Ma rappresenta la mia anima musicale, il mio transfert, quello che avrei voluto fare io». Lo ha ammirato tanto da affidargli le musiche del suo "Il ragazzo invisibile", Gabriele Salvatores, e oggi lo racconta affettuosamente insieme ad altre voci di amici, familiari e collaboratori. È stata presentata fuori concorso ieri la première di "Ezio Bosso. Le cose che restano", documentario di Giorgio Verdelli sul compositore torinese, pianista e direttore d'orchestra che a Trieste ha guidato il Teatro lirico Giuseppe Verdi durante la stagione 2017-2018. L'anteprima veneziana anticipa quella che si svolgerà a Torino, città natale di Bosso, il 13 settembre, giorno in cui avrebbe compiuto 50 anni, mentre uscirà nelle sale italiane per tre giorni, il 4, 5 e 6 ottobre.

Il film, che attacca con la sua "Following a bird", è innanzitutto il racconto di una passione bruciante: l'esigenza di fare musica già a 4 anni, la fuga di casa a Vienna sedicenne per suonare, gli inizi in conservatorio e poi da contrabbassista nella Piccola Orchestra Uto Ughi. «Mentre i colleghi nelle esecuzioni seguivano gli spartiti - racconta Enzo Decaro - c'era questo giovane contrabbassista che non girava mai i fogli: sapeva tutto a memoria. Anche quando più avanti gli fu chiesto di tenere lo spartito sul palco, lo fece solo per ragioni scenografiche, continuando a non girare mai pagina».

Papà tranviere, madre operaia, senza grandi passioni per le note: fu il fratello maggiore a capire, un giro di accordi suonato su cui un piccolissimo Bosso cantava sopra. "Le cose che restano", prodotto da Sudovest Produzioni, Indigo Film con Rai Cinema, fonde in un intreccio fluido il racconto di colleghi e amici a frammenti d'interviste allo stesso musicista, facendo entrare lo spettatore nel suo immaginario. Emergono la disciplina, la durezza del mestiere, la lezione etica: la musica è di tutti, non deve conoscere frontiere, occorre scendere dal piedistallo e far capire che questa meraviglia è a disposizione di ognuno di noi. Parole che si alternano di continuo alla sua seconda voce, appunto la musica.

Il film restituisce contemporaneamente un gustoso affresco della Torino operaia degli anni '70, unendo piccola e grande Storia, gli «anni di piombo e di gang giovanili», che «se arrivava l'avvertimento di stare a casa, succedeva qualcosa di grosso in strada», ma anche la «vecchia prozia cattivissima» che non gli lasciava toccare il pianoforte prima di aver imparato il solfeggio, l'attrazione piccolissimo per il punk, il professionismo a 15 anni. E poi il fermento degli anni '80, l'esplosione di gruppi e locali, l'universo Mod e l'ingresso negli Statuto come bassista, lui così curioso di ogni stile.

È stato un lavoro «da detective» per il regista Giorgio Verdelli, intrapreso «per scovare le centinaia di tracce lasciate da un artista che ha fatto cose diverse, in situazioni anche fisicamente diverse, prima e durante la malattia, un uomo che ha vissuto tante vite e tutte sempre in un'unica direzione: la musica». —



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