Le eresie estetiche di padre Pavel Florenskij il Da Vinci russo che osò sfidare Lenin

la recensione
Cristina Bongiorno
Tentazioni terribili, straordinaria demonologia, atroci sofferenze, crudeli autopunizioni. Il calendario martirologico della chiesa ortodossa russa, contempla personaggi come Mark l’Affossatore, implacabile con i vivi, che passò tutta la sua esistenza sottoterra a scavare tombe per i confratelli. O Pimen il Dolente, che pregava alacremente Dio di conservarlo malato. Giacque tutta la vita in un letto del convento, suscitando il disgusto dei monaci destinati a curarlo. O Isaak, rinchiuso in una microscopica spelonca, che si cibò per sette anni solo di pane benedetto, finché il maligno, con la scusa di annunciargli la visita di Cristo, lo trascinò in un’orgia infernale. Digiunatrici estenuate, intere comunità di monaci vegliavano a turno la notte per respingere gli assalti dei demoni, soli o a frotte.
Eccessi del monachesimo russo nella sua eroica fase iniziale ma che innegabilmente impastano l’identità di un popolo, e quello russo tiene a marcare la differenza rispetto al pensiero occidentale, dalla sacrilega indipendenza.
“La prospettiva rovesciata” (Adelphi, pagg. 152, euro 14) di Pavel Florenskij, che non amava il Rinascimento “putrefazione, disgregazione, e quasi morte della cultura dell’uomo”, per il motivo opposto e contrario per cui noi ne andiamo orgogliosi, cioè come apice della civiltà umanistica europea, è uno scritto sull’icona. Venne letto nel 1920 nell’ormai dismesso Monastero della Trinità di San Sergio, a 70 chilometri da Mosca, in pratica il Vaticano ortodosso, fondato circa nel 1345. Da noi Petrarca era già laureato poeta e Dante morto da 5 lustri, nel territorio russo si era ancora alle prese con la sistemazione dell’alfabeto e a compilare qualche cronaca di santi.
Eppure Florenskij, a sua volta ordinato sacerdote, non è una larva medievale dalle dita adunche che complotta contro il progresso, benché consideri la modernità estranea alla religione. Questo studio è abnegazione pura; una relazione destinata alla Commissione per la tutela dei monumenti dell’arte e dell’antichità del Monastero. Se padre Pavel fosse riuscito a trasformare il Monastero in museo, convincendo del valore storico delle icone come di un’eccellenza della tradizione culturale russa e trasformarlo in patrimonio nazionale, al regime bolscevico non sarebbe più stato possibile vendere i beni ecclesiastici all’estero in cambio di valuta pregiata. Una sfida a Lenin che scriveva: “Senza questa operazione, è assolutamente impensabile qualunque impresa statale e qualunque sviluppo economico”. Infatti la Commissione, una sorta di proto-Sovrintendenza del patrimonio culturale, sarà sciolta ma Florenskij riuscirà a salvare almeno qualcosa, posto che l’icona non è un semplice oggetto della pietà popolare, né solo godimento estetico per i gourmeur dell’arte, ma rappresenta per gli ortodossi la forza salvifica del cristianesimo, la comunicazione divino-umana sancita come dogma nel Concilio di Nicea del 787, prima dello scisma delle Chiese d’Oriente e Occidente.
Fin qui Florenskij si muove come un teologo, quale di fatto è, ma solo tra le altre cose. Laureato in matematica e fisica, senza diventarne un fantoccio collabora con l’Amministrazione Centrale per l’Elettrificazione, - “Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il Paese”, istigava lo slogan - brevetta invenzioni, interpreta secondo fede la teoria della relatività di Einstein sostenendo essere questa la geometria del Regno di Dio. Mette a frutto persino i ghiacci perenni del Gulag, dove verrà rinchiuso nel 1933 per essere fucilato quattro anni dopo, e inventa un liquido antigelo.
Padre Pavel, 5 figli, nato nell’attuale Azerbaigian nel 1882, non era né un reazionario, né un nostalgico zarista, ma era fieramente avverso al materialismo marxista. Tuttavia il suo eclettismo, che turba le esigenze classificatorie, è solo apparente: che parli di scienza o di arte, di filosofia o di biologia, la sua ricerca viene convogliata sempre verso un’unica meta, che è Dio.
Lo trova ovunque: “Tutto è croce, tutto è fatto a forma di croce. La croce sta a fondamento di tutto l’essere”; è tra i primi a notare Pablo Picasso, il cui cubismo lo porta a riesaminare i presupposti scientifici della prospettiva geometrica attraverso studi di ottica, contro quella ereditata dal Rinascimento, che giudica solo una delle possibili interpretazioni del mondo e nemmeno la migliore.
La nozione di “Prospettiva rovesciata” del dipinto, tema dell’affascinate dimostrazione di colui che allo scoppio della Rivoluzione ricoprì anche la cattedra di Spazialità nell’Opera d’Arte, è che, a partire dagli egizi, l’assenza della prospettiva diretta, il ritrarre figure ieratiche con spalle e petto frontalmente, volti e gambe di profilo, sia una scelta deliberata. Vale anche per cinesi, greci e russi… Mentre “il principio della prospettiva, che è caratteristico di una coscienza disgregata, fa la sua comparsa proprio quando viene meno la solidità religiosa della concezione del mondo”. Non gli va proprio giù l’Occidente.
Quello di padre Pavel è un affascinante excursus nella sua fede. Poggia i fondamenti nella storia, nella storia della matematica e della geometria, per librarsi nella mistica, dove ogni cosa ha la sua ragion d’essere e indica il cammino verso la massima perfezione. E le icone che a un primo sguardo risultano difettose, con l’imperizia del disegno, i colori vivaci e irrealistici, la costa del Vangelo color cinabro che contraddice la realtà - asserisce - sono quelle dei grandi maestri.
Troppo filosofo per gli ecclesiastici, troppo religioso per gli scienziati, tantomeno poteva piacere allo Stato comunista che lo accusa di essere un controrivoluzionario monarchico e ne fa un martire, ma non abbastanza ortodosso da essere canonizzato. Il suo multiforme ingegno, gli aveva fatto guadagnare tra i contemporanei il titolo di Da Vinci russo, paradossalmente. Florenskij, in linea con la sua allergia antirinascimentale, i sorrisi leonardeschi li considerava demoniaci. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo