A Trieste la Lezione di Storia dedicata al 1918, l’anno della fine degli imperi
Domenica alle 11 al Teatro Verdi di Trieste il primo appuntamento della rassegna della Laterza. Simona Colarizi: «La Grande Guerra mise termine a un ordine plurisecolare»

L’età dei grandi imperi è terminata nel 1918 con la fine della Prima guerra mondiale. Ma con la dissoluzione di quel mondo è davvero finita l’epoca degli imperialismi? Oppure la volontà di conquista, di accumulare terre, di soggiogare popoli non si è mai spenta? Questa è la domanda che la professoressa Simona Colarizi porrà al pubblico del Teatro Verdi di Trieste domenica 16 novembre alle ore 11 nel secondo incontro del ciclo Lezioni di Storia.
Ideato e progettato dagli Editori Laterza, promosso dal Comune di Trieste, il ciclo gode del contributo della Fondazione CRTrieste, Media partner "Il Piccolo" - Nord Est Multimedia. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti. La lezione potrà essere seguita anche in diretta streaming sul canale YouTube del Comune di Trieste e sul sito de "Il Piccolo".
Professoressa Colarizi, perché i grandi imperi multietnici erano così fragili all’inizio del Novecento?
«Gli imperi europei – in particolare quello austro-ungarico, l’ottomano e il russo – erano costruzioni secolari, regolate da un delicato equilibrio tra popoli, lingue e religioni. All’alba del Novecento questi equilibri si incrinarono sotto la spinta dei movimenti nazionalisti, dell’industrializzazione e delle nuove idee di partecipazione politica. Ogni popolo cominciò a sentirsi nazione, chiedendo autonomia o indipendenza. Le élite centrali, incapaci di adattarsi, rimasero ancorate a strutture autoritarie e a economie arretrate. Così, quando la modernità bussò alla porta, gli imperi non seppero aprirla: si trovarono vecchi, rigidi, e sempre più in conflitto con i propri sudditi».
In che modo la Prima guerra mondiale accelerò questa crisi?
«La guerra fu il detonatore di un processo già in corso. Durò troppo a lungo e mise a nudo la debolezza interna dei sistemi imperiali. Le popolazioni si impoverirono, le città soffrirono la fame, e le truppe, composte da etnie diverse, cominciarono a disertare. Le promesse di libertà fatte dai governi e dalle potenze alleate alle nazionalità soggette alimentarono speranze che non potevano più essere contenute. Nel giro di due anni, tra il 1917 e il 1919, i grandi imperi europei si dissolsero: quello russo travolto dalla rivoluzione, quello austro-ungarico frantumato in nazioni, quello tedesco sconfitto e umiliato, quello ottomano ridotto ai confini dell’Anatolia. Fu la fine di un ordine plurisecolare».
Dalle loro macerie nacquero nuovi Stati. Che tipo di Europa emerse?
«Nacque un’Europa di Stati nazionali che volevano essere liberi ma erano già fragili. Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Finlandia, i Paesi baltici: tutti cercavano una propria identità politica, ma i confini tracciati dopo la guerra rispondevano più agli interessi delle potenze vincitrici che alla volontà dei popoli. Le minoranze etniche erano numerose, le economie deboli, le democrazie ancora inesperte. Invece di un continente pacificato, nacque una mappa instabile, dove l’idea di nazione – che doveva essere liberatrice – divenne presto fonte di nuovi conflitti».
Il presidente Wilson parlò di autodeterminazione dei popoli. Quanto pesò quel principio nella realtà del dopoguerra?
«Il wilsonismo fu una grande promessa, ma anche una grande illusione. L’autodeterminazione fu applicata solo dove conveniva alle potenze vincitrici. Alcune nazioni europee ottennero l’indipendenza, altre furono ignorate, e l’intero mondo coloniale restò escluso da ogni diritto. Wilson aveva proposto un ideale etico e politico, ma mancavano gli strumenti per realizzarlo. La pace del 1919 non liberò davvero i popoli: creò nuovi Stati che si sentivano minacciati e frustrati. Da quella delusione nacquero risentimenti e nazionalismi aggressivi, che in meno di vent’anni avrebbero portato di nuovo l’Europa alla guerra».
Possiamo dire che la caduta degli imperi segnò la fine del modello imperiale in Europa?
«Non direi la fine, piuttosto una trasformazione. Le forme tradizionali di impero scomparvero, ma la logica imperiale sopravvisse. Francia e Gran Bretagna conservarono vasti imperi coloniali, mentre i nuovi Stati nazionali mostrarono tendenze egemoniche verso le proprie minoranze. L’idea di superiorità e di missione civilizzatrice, tipica dell’Ottocento, si trasformò in nuovi progetti di dominio. I totalitarismi, in fondo, furono anch’essi figli di quella mentalità imperiale: il mito della potenza, la volontà di espansione, la subordinazione dei popoli considerati “inferiori”».
Quindi, professoressa, la fine degli imperi non fu una conclusione, ma l’inizio di un altro capitolo della storia europea?
«Esattamente. Fu la fine di un mondo e insieme l’inizio di un altro, più fragile e contraddittorio. Dalle rovine degli imperi nacque l’Europa delle nazioni, ma anche un’eredità di rancori, di confini contestati e di illusioni deluse. È da quelle contraddizioni che prende forma il Novecento: un secolo di illusioni, di odio, di speranza e di incertezza. Solo comprendendo quella transizione possiamo capire l’Europa contemporanea, ancora oggi alle prese con la difficile convivenza tra identità nazionali e progetto comune. Dobbiamo coltivare la speranza che come nel 1945 l’Europa possa rafforzarsi e diventare un centro non imperiale, ma uno stato potente in grado di imporre i suoi valori, questa è l’utopia più grande». —
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