L’Italia occupò Trieste e subito mandò treni pieni di cibo a Vienna

di Pietro Spirito Uno dei primi atti dopo l’armistizio e lo sbarco a Trieste del generale Petitti di Roreto, il 4 novembre 1918, fu organizzare la partenza di convogli carichi di generi alimentari...
Di Pietro Spirito

di Pietro Spirito

Uno dei primi atti dopo l’armistizio e lo sbarco a Trieste del generale Petitti di Roreto, il 4 novembre 1918, fu organizzare la partenza di convogli carichi di generi alimentari destinati agli abitanti di Vienna prostrati dalla fame. Gli aiuti alimentari, infatti, all’alba della pace dopo anni di guerra «divennero uno strumento di riappacificazione e avvicinamento all’ex nemico, ma allo stesso tempo un’arma di ricatto di fronte ai tentennamenti austriaci nell’eseguire le clausole armistiziali, che provocarono la minaccia dell’interruzione degli approvigionamenti alimentari, da operarsi però solo ai danni dell’esercito e non della popolazione austriaca».

Lo racconta Raoul Pupo, con i contriburti di Giulia Caccamo e Andrea Di Michele, nel libro da lui curato “La vittoria senza pace - Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra” (Laterza, pagg. 288, Euro 22,00), da oggi in libreria. È uno dei pochi studi che analizza come nell’immediato dopoguerra venne gestita “manu militari” la politica estera italiana sia nei nei territori “redenti”, come la Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige, ma anche a Vienna, «dove l’Italia cercò di ritagliarsi un ruolo centrale nella definizione dei nuovi rapporti di forza nello scompaginato spazio danubiano», e «addirittura nella lontana Russia, vale a dire nella Murmania, in Siberia e in Estremo Oriente, dove la truppe italiane parteciparono alle operazioni antibolsceviche».

Il libro segue tre filoni principali: l’organizzazione dell’Italia in Austria e nelle province occupate di Trento e Bolzano (di Andrea Di Michele), quanto avvenne lungo il litorale adriatico, da Trieste e la Venezia Giulia fino a Fiume e alla Dalmazia (Raoul Pupo), e infine le spedizioni “minori”, a cominciare dall’Albania fino all’occupazione del Dodecanneso (Giulia Caccamo). Ne emerge una realtà articolata e complessa, dove spicca generalmente una gestione della politica estera ondivaga e ambigua nel tentativo dell’Italia di ritagliarsi un proprio spazio nei nuovi e precari assetti mondiali, con i comandi militari dislocati nelle terre occupate spesso portati ad agire per conto loro anche contro gli interessi del governo di Roma. Molte delegazioni, soprattutto quelle inviate nei territori ex austroungarici in città come Praga, Lubiana, Graz, Budapest, Leopoli ecc., erano composte da una «manciata di militari che operavano in condizioni assai difficili, spesso in concorrenza con analoghe missioni alleate», mentre in altri casi non mancarono le tensioni, come nel caso della delegazione a Vienna, dove «un’apposita commissione artistica costituita nell’ambito della missione militare compilò lunghe liste di materiale storico-artistico di provenienza italiana di cui si pretendeva la restituzione», suscitando furibonde polemiche da parte dell’Austria.

Nella Venezia Giulia, poi, il governatore Petitti di Roreto «doveva fare i conti con il sovrapporsi di competenze e velleità di protagonismo di diverse istituzioni militari italiane, ma in poco conto poteva tenere gli embrioni di contropotere jugoslavo istituti nei giorni confusi della crisi dello Stato asburgico e rapidamente dissolti». In Dalmazia, invece, il governatore, l’ammiraglio Millo, . «dovette faticare non poco per imporre la propria autorità sul territorio assegnatogli», visto che il ritardo accumulato dalle truppe italiane nel prendere possesso dei territori interni, aveva rafforzato «i comitati jugolsavi, facenti capo al governo provvisorio di Spalato, tutt’altro che disposti a collaborare con le autorità italiane». Insomma, se la volontà politica fu quella di mostrare nei territori occupati e in attesa di annessione «il volto di un’Italia tollerante e generosa, capace di garantire alle nuove minoranze linguistiche un’integrazione rispettosa dei propri diritti nazionali», non sempre e non ovunque questo accadde. Anche perché, concludono gli autori, «dopo una guerra scoppiata proprio per l’esasperata contrapposizione nazionale e imperialista tra gli Stati europei, il vecchio continente non era proprio il posto migliore dove attendersi equilibrio e comprensione nei confronti di vecchi e nuovi nuclei allogeni».

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