Luca Bianchini cattura l’essenza di una Trieste al femminile
«Scelgo le storie per istinto, non faccio calcoli, è l’unica regola che seguo. Poi mi devo innamorare dei luoghi in cui le ambiento, e Trieste è sempre stata una mia fissa, da quando un amico mi invitò a visitarla qualche anno fa. Ricordo ancora che mi scrisse: “Quando arrivi a Monfalcone guarda sempre fuori dal finestrino”. Da allora, ogni volta che torno a Trieste attendo con ansia la fermata per godermi quel golfo. E poi Trieste mi piace perché, come a Torino, non ci capiti per caso».
Qualcosa deve aver davvero colpito, e profondamente, l'immaginario di uno scrittore molto amato in Italia come Luca Bianchini, perché il suo nuovo romanzo “So che un giorno tornerai” (Mondadori, 264 pagine, 18 euro), da oggi in libreria, è impregnato di triestinità fin nella minima sfumatura, innescando un gioco di rimandi che potrebbe risultare particolarmente gradevole per i lettori della città.
Un obiettivo, come precisa ancora l'autore torinese nei ringraziamenti di rito, che si è potuto raggiungere grazie a una coppia «che mi ha aperto le porte di questa città meravigliosa», permettendogli un'immersione e una conoscenza «dai tuffi alla clanfa al mondo dei jeansinari». Non una superficiale strizzata d'occhio a un mondo considerato esotico e lievemente alieno, però, ma uno spirito che, per com'è restituito nelle pagine, suona autentico, come se Bianchini avesse colto una piccola parte dell'essenza della città: ciò anche nel tono scanzonato venato di sottile malinconia che aleggia, fatto proprio dallo scrittore con garbo e intelligenza, che illumina e dà carattere a una narrazione altrimenti non particolarmente smagliante.
L'anima libera e anticonformista di Trieste che si riverbera nella spiccata emancipazione che vivono le “mule” della città, per di più in un anno caldo come il '68, fa da sfondo a una piccola saga al femminile che prende il via con la 19enne Angela, la più bella e desiderata di San Giusto, tanta voglia di assomigliare a Monica Vitti da vedersi già sulla Croisette con Monicelli. Il romanzo inizia ironicamente con un parto e un nome sbagliato. Non si chiamerà infatti Giorgio il nuovo arrivo all'Ospedale Maggiore una mattina di dicembre di fine anni '60: più che alla nuova nata la neomamma Angela è interessata all'arrivo del grande amore Pasquale, fascinoso jeansinaro dalla Calabria a Ponterosso, a tal punto da non aver nemmeno pensato a un nome alternativo al prestabilito. Il mancato riconoscimento della bambina da parte del padre getterà nello sconforto Angela che sfuggirà alle responsabilità andandosene a Bassano e demandando la cura della piccola Emma alla famiglia.
Il quadretto parentale che si dispiegherà intorno alla piccola, i Pipan, rappresenta uno degli aspetti più riusciti e gustosi della narrazione. Tanti, vitalissimi e sgangherati sono i fratelli di Angela: Primo, all'anagrafe Francesco Giuseppe, Riccardo, bel tenebroso e playboy impenitente, e i gemelli soprannominati il Coccolo e il Biondo. Nucleo capitanato da el Pipan, nostalgico del “viva l'A”, e con la paziente Nerina a tamponare le intemperanze della scalmanata brigata. Emma sarà la figlia di tutti e crescerà così, libera e anticonformista come la Trieste in cui vive.
Crescendo poi, vorrà essere realmente Giorgio, tra pipì in piedi, calcio e clanfe da “fenomeno”, volendo esser nata maschio: ma la vita prenderà una piega diversa, riservandole un destino molto simile a quello materno che gestirà, però, in tutt'altra maniera.
Romanzo di formazione giocato a più livelli generazionali, “So che un giorno tornerai” è la storia di una ricerca dell'identità e insieme di riscoperta delle proprie origini condotta in maniera lieve, ironica e nostalgica. E, quasi un'altra protagonista oltre a Angela e Emma, c'è una Trieste briosa, pulsante e un po' folle. Le cantate da Libero, i vitz, la “Jugo”, il Paradiso dove scatenarsi a ballare o il Piccolo Mondo dove sbirciare le ballerine, i bagni al Bivio, le clanfe all'Ausonia, il pomeriggio al ricreatorio, i cinema dove limonare, i kranz alle noci e il Pelinkovac; e ancora, una Cavana popolata di gentaglia e prostitute, le osmize e Radio Fragola, il Bar Stella per telefonare, la 128 e la Prinz con cui sfrecciare nei vicoli attorno alla Cattedrale: c'è veramente tutto, compresi i preconcetti sui friulani e le idiosincrasie dei triestini “patochi”.
Un colore che supera il pittoresco, attraverso cui Bianchini restituisce della città un'immagine vivida e affettuosa, sfuggendo all'effetto di vuota cartolina. —
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