Milena Vukotic è l’anziana Daisy nella commedia contro il razzismo

A Gradisca la piéce che nella versione cinematografica vinse quattro Oscar. Il 12 novembre sarà in scena al Verdi di Muggia con la regia di Guglielmo Ferro

Alex Pessotto

TRIESTE. In molti la collegano al ruolo della moglie del ragionier Ugo Fantozzi. Milena Vukotic, però, è anche tanto altro: la sua, tra televisione e palcoscenico, è una carriera lunghissima.

Ora torna in Friuli Venezia Giulia: il 9 novembre sarà al Nuovo teatro comunale di Gradisca per aprirne la stagione. Sempre in novembre, sabato 12 sarà poi al Verdi di Muggia e, domenica 13, al Giovanni da Udine. La si potrà applaudire in “A spasso con Daisy”, commedia che porta la firma di Alfred Uhry e che ha vinto il premio Pulitzer per la drammaturgia nell’88. L’anno seguente, il lavoro è diventato un film con Morgan Freeman e Jessica Tandy, che ha ottenuto quattro Oscar. L’adattamento teatrale che in questi giorni approda in regione si deve a Mario Scaletta. La regia, invece, è di Guglielmo Ferro.

Signora Vukotic, com’è nata la scelta di “A spasso con Daisy”?

«Mi interessava affrontare una commedia solo apparentemente leggera e che, così, viene spesso presentata: dietro questa apparente leggerezza c’è infatti un pensiero importante e profondo. E poi, mi interessava molto l’autore, un ebreo che ha inserito nel testo un umorismo tipico degli ebrei, assai caratteristico della loro filosofia e del loro modo di essere: lo sento, lo avverto in maniera particolare. Sì, l’ironia che traspare da questo lavoro mi è congeniale e la apprezzo tanto».

Qual è il pensiero, che lei definisce importante e profondo, alla base del testo?

«Il tema del razzismo, nella commedia, è molto forte. Una signora ebrea, quando ormai è vedova e anziana, si trova a rivendicare il proprio diritto alla libertà, a desiderare il rispetto degli altri, senza che nulla le venga imposto, soprattutto da parte del figlio, che, pur standole vicino come nessun altro, vive ovviamente la sua vita. Questa signora è assai consapevole della realtà che la circonda e della propria condizione: appunto, è vedova, anziana ed ebrea, in una società che tende a isolare chi non è più giovane. La sua è una famiglia ricca e il figlio, dopo che lei, per un incidente, distrugge l’automobile, non vuole che guidi più la macchina: preferisce assumerle un autista, che la donna, peraltro, rifiuta. Ecco, il lavoro comincia con questo rifiuto e con un’aggressione piuttosto violenta nei confronti dell’autista, che, tra l’altro, è di colore. Quell’iniziale rifiuto e la presa di coscienza, oltre vent’anni dopo, che quell’autista di colore è il suo migliore amico, sono alla base della vicenda: entrambi si ritrovano quindi a essere un po’ emarginati, lei per una ragione, lui per un’altra».

Parla del razzismo con molta partecipazione. In Italia, oggi, questa piaga è presente.

«Non lo so. Forse, l’Italia sta diventando un Paese razzista. Ma credo che sia tutto il mondo ad avvertire il bisogno di affermare il rifiuto dell’uguaglianza».

Per quali motivi, secondo lei?

«Forse perché il rifiuto dell’uguaglianza è qualcosa di insito nella nostra umanità. Sembra che ci sia un forte desiderio di parità, ma le guerre e le notizie di ogni giorno dimostrano esattamente il contrario».

Lei soffre di solitudine?

«No, non ne soffro».

La trama dello spettacolo ricalca quella del film?

«Sì, assolutamente. Dopo tutto, l’autore ha scritto la commedia per il teatro. Il film è venuto più tardi».

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