Napoli, ambigua e decadente

Ozpetek racconta la “sua” città segreta. E incanta anche nelle imperfezioni
Raccontare un film potendone accennare solo l'incipit e una minima sinossi di fondo si presenta come un esercizio di equilibrismo sempre sul filo. Ma non si può fare altrimenti: non può essere che così, trattenuta e attenta a non rivelare i molteplici segreti che si dischiudono fotogramma dopo fotogramma, la trattazione di “Napoli velata”, il nuovo film di Ferzan Ozpetek, una dichiarazione d'amore e di passione alla città che, dopo Roma e Lecce, di più l'ha accolto tra le sue braccia.


Un legame nato cinque anni fa in occasione della messa in scena al prestigioso Teatro San Carlo della “Traviata” di Giuseppe Verdi: non solo una nuova sfida artistica per il regista di Istanbul, baciata dal successo, ma soprattutto l'occasione che lo ha fatto avvicinare al capoluogo partenopeo. Una città entratagli - come si riscontra in ogni quadro del film - intimamente, visceralmente nelle corde, e che il regista va a raccontare, invece che per quello che il luogo mostra, piuttosto per ciò che cela o gelosamente custodisce: portoni che si spalancano in anonime viuzze rivelando preziosi altari, giardini lussureggianti ma labirintici e opprimenti, chiostri all'interno di aristocratici palazzi, e ancora scaloni che inghiottono, arazzi che coprono, botteghe antiquarie che paiono caverne piene di tesori nascosti. Una “chiusura” di una bellezza abbacinante ma misteriosa e decadente, che gronda splendori passati e antichi fasti ormai sconosciuti; una ricercatezza estetica che sappiamo da sempre insita nelle corde di Ozpetek ma che qui, complice l'atmosfera sospesa, le componenti noir della storia e il milieu prepotentemente opulento e barocco, si libera a briglia sciolta grazie anche al lavoro del direttore della fotografia Gian Filippo Corticelli e della scenografa Ivana Gargiulo, creando un incanto visivo ai limiti del reale.


È la vera protagonista, quindi, Napoli, al pari di Adriana (Giovanna Mezzogiorno), entrambi presenti all'ennesima potenza nelle tre scene, di forte impatto, che aprono il film. Scene che ne individuano subito la cifra drammaturgica: c'è un delitto – dalle immediate valenze hitchcockiane - e c'è un incontro fatale, e dove subito le cifre del thriller e del melodramma iniziano a mischiarsi fino a diventare tutt'uno.


Allo stesso modo in cui la narrazione si addentrerà pian piano in una Napoli più sotterranea e sconosciuta, di pari passo procederà nella vita dell'anatomopatologa Adriana: l'incontro con il seducente Andrea (Alessandro Borghi), la passione, l'aspettativa di un amore. Poi, l'imprevisto. La donna sarà così condotta a un cammino complesso e doloroso, un viaggio dentro se stessa a scavare nei meandri e nelle zone oscure della propria personalità, dove i tasselli di un drammatico passato non sono andati mai a posto.


Altra forza del film, anch'esso elemento tipico e irrinunciabile per l'autore, la famiglia allargata che qui si dispiega in un autentico parterre des reines, in una declinazione al femminile totale che investe anche gli uomini: su tutti, un Peppe Barra con una performance che si stampa nella memoria.


Non privo di difetti in un racconto a tratti forzoso, “Napoli Velata” incanta forse anche per il suo fascino imperfetto fatto di ambiguità, disvelamenti e realtà apparenti, in una sceneggiatura disseminata di elementi di gran valenza simbolica, dall'occhio-amuleto regalato alla protagonista ai non vedenti che si aggirano nei vicoli durante la sua ricerca. Perché la gente «non sopporta troppa verità», che va invece più “sentita” che guardata direttamente nuda e cruda negli occhi. A dirlo, un personaggio durante la “figliata” dell'inizio: per chi non conosce questo rito arcaico legato alla cultura dei femminielli, incipit davvero scioccante.


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