Nell’arte nulla è perduto perché il pensiero del genio è più forte della materia

TRIESTE Nel primo manifesto dello spazialismo redatto a Milano nel maggio del 1947 insieme al critico Giorgio Kaisserlian, al filosofo Beniamino Joppolo e alla scrittrice Milena Milani, l’artista Lucio Fontana affermava: “l’arte è eterna ma non può essere immortale”. Allora Fontana intendeva mettere in discussione il concetto stesso dell’arte e del fare artistico per superare l’idea tradizionale dell’arte quale pittura e scultura e svincolare l’opera artistica dalla materia, dando valore al “gesto”: “il cartone dipinto e il gesso eretto non hanno più ragione di essere”, aveva scritto lo stesso artista solo un anno prima.
Ancora all’inizio del ‘900 Marcel Duchamp rivendicando il valore dell’idea sull’oggetto aveva indicato la strada per una nuova visione dell’arte non più legata alla materialità bensì al pensiero. Ma considerando l’arte del passato, quanto è importante l’aspetto materiale di un’opera? Cosa rimane di un capolavoro perduto? Le arti figurative possono essere paragonate alle opere letterarie o alle composizioni musicali? La mostra “Nulla è perduto” allestita a Illegio, minuscolo paesino arroccato sopra Tolmezzo, da anni centro di straordinarie mostre d’arte, esalta le più avanzate tecnologie capaci di restituire capolavori perduti con l’esattezza di riproduzioni in 3D che ridanno spessore alle pennellate, ricostruiscono palette di colori perfettamente corrispondenti alle tavolozze di ogni singolo autore. I risultati sono sorprendenti anche se, osservando da vicino, l’operazione risulta più convincente con capolavori in cui l’arte, la pittura, è più “razionale”, meditata, misurata, attentamente calibrata nelle luci e nelle cromie, come ad esempio nell’opera di Vermeer.
Non risulta del tutto persuasiva quando riprende opere di artisti più “romantici” e tormentati come nel caso di Van Gogh dove la matericità delle pennellate suggerite dal supporto tridimensionale non emoziona quanto un originale, non fa trasparire quelle “lacrime e sangue” sudate dal pittore mentre realizza il dipinto, a esprimere la totalità del suo sentire. Lo stesso curatore della mostra don Alessio Geretti, del resto, nella lettura di ogni singolo capolavoro, sottolinea la sua componente spirituale: dalle vetrate di Chartres che sembrano realizzate più per Dio che non per il fedele il cui occhio a malapena riesce a distinguerle data la loro elevata posizione sulla facciata della cattedrale, ai cavalli di Franz Marc, dipinti di blu, il colore della spiritualità per eccellenza secondo Kandinskij, capace di far risuonare le corde più profonde dell’anima. Agli stessi girasoli di Van Gogh il cui giallo, intenso, violento, è sinonimo di forza vitale, disperatamente evocata in tanti dei suoi dipinti, alle “Ninfee” di Monet, sospese tra un cielo e una terra divenuti ormai invisibili, alla ricerca dell’infinito.
Viene allora da pensare che un capolavoro possa sopravvivere anche al di là della sua esistenza materiale in virtù della sua “aura”, ovvero, riprendendo Walter Benjamin, per quei valori di “unicità, autenticità e autorità” tali da rendere eterna un’opera, sia essa opera letteraria, musicale o pittorica, scultorea o architettonica. Per quel tanto di verità che ha saputo comunicare, per quella presa di coscienza, quella consapevolezza che ha aggiunto al nostro essere, al nostro pensiero, al nostro sentire. Per quel “gesto” che, come affermava Fontana, “non può non continuare a permanere nello spirito dell'uomo”.
Si pensi ad esempio ai cartoni della Battaglia di Cascina di Michelangelo e della Battaglia di Anghiari di Leonardo, entrambi destinati alla decorazione della Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Vecchio a Firenze, né da uno né dall’altro artista mai portata a termine. Quei cartoni, perduti, relativi a due opere probabilmente mai neppure iniziate, sono diventati la “scuola del mondo” come li definì già a quei tempi, Benvenuto Cellini. Sono stati studiati, ricopiati, reinterpretati dagli artisti a loro contemporanei e a venire. E ciò non solo perché Michelangelo avesse disegnato la perfezione del corpo umano nelle più ardite torsioni o perché Leonardo avesse espresso i sentimenti più terribili dell’uomo mentre lotta contro il nemico; ma soprattutto perché entrambi gli artisti sono andati oltre il soggetto particolare per alludere a qualcosa di universale: un ideale di virtù, nel caso di Michelangelo, la bestialità e brutalità della guerra, nel caso di Leonardo.
Ecco che allora il senso, la verità di quei cartoni sono rimasti, nel tempo, al di là del loro “supporto” materiale. Allo stesso modo i tre pannelli realizzati per l’Università di Vienna da Gustav Klimt mettono in scena la fragilità, il dubbio, il limite dell’uomo come mai altro artista aveva osato fare, mostrandoci come la Medicina non salva l’uomo dal dolore e dalle sofferenze, Filosofia non gli permette certezze assolute, Giurisprudenza non risolve le ingiustizie di questo mondo. E Klimt lo dice con una tale forza espressiva, con una tale evidenza di verità che la stessa Università si rifiutò di collocarli sul soffitto dell’Aula Magna come aveva inizialmente previsto.
Le tre allegorie sono andate completamente distrutte, insieme ad altre opere di Klimt collezionate da Karl Wittgenstein nell’incendio del castello di Immendorf nel 1945. Ciononostante i tre pannelli “rimangono”, perché da lì in poi la pittura del fondatore della Secessione viennese non sarà più quella di prima; perché l’oro che compare in tanti dei suoi dipinti, proprio alla luce di quei tre pannelli, non lo si può leggere come pura e semplice decorazione; perché Schiele non avrebbe scavato così a fondo nella sua anima se non si fosse confrontato con il Klimt dei tre pannelli dell’Università. Si può dire dunque che un’opera permane al di là della sua esistenza fisica laddove il pensiero di chi l’ha creata è più forte della materia, laddove con quell’opera è stato compiuto il “gesto” di aprire una finestra di bellezza, di verità o di dubbio sull’esistenza da poter condividere nel tempo, indagando l’ignoto, cercando delle risposte, aspirando all’infinito. Anche perché, come ebbe a dire l’architetto e noto designer Ettore Sottsass, “L'arte è un modo per vincere la paura… Un modo di tentare di finir dentro nell'ignoto, di fermarlo questo ignoto in qualche maniera”. —
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