Per salvare l’Europa bisogna ricordare la Grande guerra

Nel museo che rievoca la battaglia di ottobre c’è una memoria collettiva al di là dei confini
Pubblichiamo di seguito parte del discorso tenuto il 21 ottobre da Paolo Rumiz al museo di Caporetto/Kobarid nella ricorrenza del centenario della battaglia di Caporetto, alla presenza dell’ambasciatore americano a Lubiana, Kelly Roberts, e del segretario dell’Istituto italiano di cultura in Slovenia, Stefano Cerrato.


Aver chiamato un italiano a parlare a Caporetto nel centenario della più clamorosa sconfitta militare italiana, avvenuta proprio su queste montagne nell'anno orribile della Grande guerra, il '17, può essere visto in due modi opposti: una trappola, oppure un atto di coraggioso fair play. Io che conosco i contenuti di “pietas” universale di questo museo e lo spirito di coloro che lo hanno fondato e lo curano, non ho dubbi: l'invito che mi è stato rivolto è un atto di grande cortesia e allo stesso tempo di grande apertura in senso europeo.


Questa cittadina sull'Isonzo era il luogo perfetto per costruire una memoria di umiliazione per l'Italia e di revanche per i popoli dell'ex impero austro-ungarico, a partire da quello sloveno. Ma così non è stato. Caporetto è un nome terribile, ideale per dividere, e noi sappiamo quanto la politica – specie sulle frontiere - ami costruire rancori anziché unire. Qui corre un “limes” secolare fra lo spazio “latino” e quello “slavo”. Qui nel primo come nel secondo conflitto mondiale si sono affrontati due mondi. E invece qui, dove le fortificazioni della guerra fredda sorgono fra i bunker del '15-'18, proprio qui, per volontà di alcuni uomini di mente aperta, si è realizzato uno straordinario luogo d'incontro fra i popoli, chiamati a riflettere insieme sulle tragedie che li hanno separati per il resto del secolo breve.


Ne è nato un luogo unico, che rivendica il diritto alla memoria senza retorica o rivendicazioni, semplicemente raccontando storie di uomini che la prima, bestiale guerra dei materiali avrebbe voluto trasformare in numeri, e che invece qui emergono come individui. Uomini con la loro storia, le loro radici, i loro affetti, i loro amori.


Sono triestino, figlio bastardo della frontiera come tanti da queste parti. Mio nonno materno ha combattuto con l'esercito asburgico e mio padre, di origine friulana, era ufficiale dell'esercito italiano nella seconda guerra mondiale. Il risultato è che a casa mia, quando si parlava di guerra e si diceva “i nostri”, non era mai chiaro se si trattasse di italiani o austriaci.


Fin da bambino ho cercato di capire queste mie radici complicate. Per anni ho vagato fra Redipuglia e i piccoli cimiteri gestiti dalla Croce Nera sul Carso attorno alla mia città, e questo con un unico desiderio: costruire un armistizio postumo fra i Caduti di opposta trincea. Raccontare la tragedia che ci aveva schiantato tutti indistintamente a partire dal '14. Il suicidio dell'Europa.


Come giornalista, alla vigilia del centenario del 14-18, ho viaggiato lungo tutti i fronti della grande guerra. Ho visto la Luna maledetta di Galizia, il fango senza fine del fronte occidentale, i vertiginosi camminamenti sulle Dolomiti, i boschi dei Carpazi disseminati di croci, le aurore color sangue sui monti della Drina.


Ho raccontato i grandi fiumi lenti che tagliano il vecchio fronte russo scendendo sul Mar Nero, i mirtilli color sangue sui campi di battaglia della Romania, gli ossari di Francia sorvolati da centinaia di oche selvatiche, la neve gelata dal vento in Ucraina, la falesie dei Dardanelli arrossate dal sole calante. Alla fine di ottobre del 2013, esattamente quattro anni fa, in questo stesso periodo dell'anno, alla vigilia del giorno dei morti, ero in Polonia ad accendere lumini per i Caduti triestini sepolti lassù. Ho suonato la mia armonica per loro, letto ad alta voce le loro lettere e consumato libagioni nei loro cimiteri. Il tempo era magnifico. Sembrava quasi che il cielo si fosse aperto sull’altro mondo per facilitare il mio dialogo con le Ombre.


Ebbene, da quei viaggi ho tratto una convinzione molto semplice. Questa: la pace si difende tenendo viva la paura della guerra. Non c'è niente di più sano della paura per la sopravvivenza della specie. La storia parla chiaro: se l'Europa si è gettata nel baratro in uno stato che è stato definito “di sonnambulismo”, è anche perché si era dimenticata delle guerre precedenti.


Da qui una certezza: la pace può basarsi solo sulla nostra onesta capacità di ricordare e di evitare che i nostri vuoti di memoria siano occupati dai seminatori di zizzania. Una capacità che vedo venire meno con grande preoccupazione. È stato infatti proprio durante quel viaggio sui fronti di guerra che ho avvertito i primi scricchiolii dell'edificio europeo.


Qualcosa non funzionava nell'Unione già allora, alla vigilia del 2014. Bruxelles non coglieva la formidabile occasione di ricompattare gli europei ricordando loro la tragedia che li aveva divisi. Non si sentivano discorsi alti, capaci di volare sopra le nazioni e i loro miswerabili interessi di parte.


Si udiva solo un concerto stonato: le fanfare francesi e il silenzio dei Tedeschi, l'euforia dei Polacchi per la loro rinascita nazionale e l'amarezza degli Ungheresi ridotti a uno stato Lilliput dal trattato di pace. Belgi contro Tedeschi, Croati contro Serbi, Inglesi smarriti in preda a insane nostalgie dell'impero perduto, già pronti alla scelta di Brexit. E Bruxelles smarrita, diplomaticamente silenziosa per timore di irritare questo o quell'ex belligerante.


Stava delineandosi il grande ritorno delle secessioni, delle xenofobie, dei reticolati e delle frontiere. Di fronte a tutto questo ho tratto delle conclusioni operative. Ho pensato che per salvare l'Europa era urgente riattivare la memoria del 14-18. Ma in che modo? Non bastava capire con la mente. Bisognava sentire, con il corpo. Quella era una guerra che aveva inflitto al corpo dell'uomo cose mai provate prima. E allora bisognava entrare in quegli scarponi e quelle divise, salire su quelle montagne, dormirci sotto un telo precario, portare il peso dei ragazzi di allora, avvicinarsi ai loro luoghi sulle stesse linee ferroviarie e poi continuare a piedi, sgobbando. Ascoltare il silenzio della Terra, senza tablet né luce elettrica.


In poche parole: sostituire la commemorazione con qualcosa di molto più antico, l'evocazione, fino al limite dell'autosuggestione. Immedesimarsi, per chiamare a raccolta delle ombre.


Perché vi giuro che li ho sentiti, e più volte, i ragazzi di quella guerra. Li ho sentiti a Ypres, sul fronte belga, dove ogni sera alle otto precise dei trombettieri suonano il silenzio sotto l'arco immenso della porta di Menin. Li ho sentiti nei cimiteri dei Carpazi, dove eserciti di faggi, aceri, betulle, abeti, ontani sembrano stare in ascolto intorno ai cimiteri di guerra, sull'attenti come granatieri, con le radici affondate nei corpi dei nostri nonni. Li ho sentiti anche qui, in questa valle fra Tolmino e le Alpi Giulie, dove tutto, dalla chiesetta di Javorca alla Ruška Kapela, dai piccoli ponti di legno sull'Isonzo alle trincee del Kolovrat, indica cura per i luoghi e un rapporto intimo e commovente della popolazione locale con la memoria. Li ho sentiti, soprattutto, in questo piccolo museo che ha cambiato il destino di un'intera valle, altrimenti destinata a restare ignorata periferia. Uno spazio che è una macchina del tempo, una trasferta nella storia, nel quale si entra in punta dei piedi per rispetto alle Ombre che lo abitano.


C'è una nicchia, nel museo, che ricostruisce la postazione di un alpino. Dentro c'è un manichino in divisa che scrive una lettera al padre. Si sente la sua voce, con sullo sfondo, la canzone “Stelutis alpinis” in onore dei soldati morti in montagna. È una ricostruzione tremendamente emozionante. Ho visto dei Tedeschi uscire da quella stanza con gli occhi rossi dal pianto. È così che si fa l'Europa. Più che con i discorsi di cento politici.


Il mio cuore è colmo di gratitudine per gli uomini che, superando mille scetticismi iniziali, hanno voluto tutto questo. A partire da Zdravko Likar, prefetto di Tolmino, mente illuminata e ideatore del museo, fino al direttore Jože Šerbec, che mi ha generosamente accompagnato dalla piana di Tolmino fin sulla cresta del Kolovrat, o il curatore Željko Cimprič, inimitabile raccoglitore di storie che oggi corredano la mostra del centenario.


Storie come quella di un capitano dei bersaglieri che decide di non sparare su un plotone di Austriaci svelato da uno squarcio nella nebbia mentre arranca indifeso nella neve fresca. O la lettera di un soldato che scrive: “Quanto è bello dormire per terra dopo giorni ininterrotti di cammino”. O gli ingegneri tedeschi specialisti delle granate a gas, mascherati da Bosniaci, che indossano il fez per non svelare agli Italiani il loro anomalo afflusso su Plezzo, con tanto di muezzin che chiama alla preghiera due volte al dì.


Dovrei ringraziare una valle intera per tutto questo. Essa Far sentire la mia riconoscenza a Branko Medveš, semplice titolare di agriturismo, per la cura con cui ha ripulito le trincee italiane attorno a casa sua. O a Stanko Šekli, che ha rimesso a posto a spese sue la casa in cui il tenente Rommel dormì poche ore prima della presa del Matajur.


Questa comunità sul fiume più limpido d'Europa ci dice quanta ricchezza – morale e materiale - può dare l'amore per la propria terra, nel rispetto della memoria.


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