Petronio, l’amico dei libri che non si è mai arreso ai profeti del pessimismo

di Alessandro Mezzena Lona
I libri, per lui, non erano oggetti inanimati. Raffinati esercizi di bravura da studiare e basta. In ogni romanzo, in ogni raccolta di poesie, in ogni testo teatrale, Giuseppe Petronio scopriva una finestra spalancata sul mondo. Una via creativa per leggere la realtà. Ed era profondamente convinto che fosse impossibile capire l’età del Comuni senza aver letto Dante, che fosse difficile sintonizzarsi con l’inquietudine dell’uomo moderno senza le poesie di Giacomo Leopardi, i romanzi di Italo Svevo, i capolavori di Luigi Pirandello. E per intepretare le trasformazioni dell’Italia e del mondo nel ’900 rimandava a Pavese, Calvino, Moravia. Ma anche alla letteratura di genere: ai gialli, alla fantascienza, alle storie “rosa”.
Giuseppe Petronio se n’è andato 12 anni fa. E oggi, a guardare la crisi profonda delle università, a come sono snobbati gli studi umanistici in particolare, verrebbe da pensare che tra noi e lui, il suo metodo di lavoro, la sua passione di lettore e di critico, si sia interposto un oceano di tempo. Per i profeti del mondo globalizzato, infatti, i libri vanno bene al massimo come passatempo. E chi si mette a studiare la letteratura, chi sogna di dedicarsi alla critica letteraria, è destinato a restare escluso dal mondo del lavoro. Passando anche per un ingenuo sognatore da rottamare.
In realtà, quello che Petronio ha lasciato ai suoi allievi, ai professori che lo hanno prima affiancato e poi sostituito alla facoltà di Lettere dell’Università di Trieste, è una grande lezione di vita. Un metodo di lavoro capace di dare i suoi frutti sempre e comunque. Basato sulla serietà, l’approfondimento, la libertà di giudizio, la curiosità onnivora. Come si capisce benissimo dalle testimonianze raccolte nel volume “Quale italianistica? La lezione di Giuseppe Petronio” pubblicato dall’Istituto Gramsci del Friuli Venezia Giulia. Raccoglie, con la cura di Anna Storti (una delle ultime allieve di Petronio ancora in cattedra, anche se per poco) gli atti del convegno organizzato alla Biblioteca Statale di Trieste nel 2013 dallo stesso Istituto, con la collaborazione del Dipartimento di studi umanistici dell’Università.
Figlio di una cultura antifascista che aveva trovato prima nel filosofo napoletano Benedetto Croce, e poi in Marx riletto da Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”, i suoi imprescindibili punti di riferimento (passando per la lezione altissima di Francesco De Sanctis), Petronio ha saputo incarnare la figura dell’insegnante e del critico militante. Lasciando dietro a sé opere di storia della letteratura importantissime, come la varie edizioni de “L’attività letteraria in Italia”, senza mai saltare una lezione universitaria, senza mai sottrarsi a una sessione d’esami, a una discussione di tesi, a un colloquio con gli studenti.
Fin da ragazzo, raccontava Petronio nello splendido ritratto autobiografico intitolato “Le baracche del rione americano”, pubblicato da Unicopli, aveva provato un amore grande «per la poesia, che mi portava a leggere con passione interessata scrittori di tutti i paesi». Alle sue spalle vegliava «nume e tutore De Sanctis, e per lui mi si era rafforzata la convinzione, istintiva, che dietro la letteraratura, a generarla e spiegarla, ci sono tante altre cose che anch’esse vanno conosciute professionalmente: ai due concorsi che diedi, nel ’30 e nel ’31, svolsi non i temi di letteratura italiana e latina ma di storia».
Per Petronio, ricorda Vitilio Masiello, la letteratura non è mai stata pura arte creativa di uno scrittore che si chiude in una stanza a inventare storie. Ma va analizzata come «forma specifica della produzione intellettuale, socialmente e storicamente determinata: radicata cioè nel tempo e nella storia e dialetticamente connessa alle forme storicamente date del vivere: alla dinamica sociale, alle problematiche esistenziali, alle tamatiche e più complessivamente agli orizzonti culturali di un determinato contesto storico-sociale».
Le mode mutanti lasciavano Petronio indifferente. Tanto che, negli ultimi anni, aveva dedicato parecchio del suo tempo e delle sue energie a smantellare, con la consueta lucidità, il concetto di postmoderno. Uno spettro non definibile. Perché, come ricorda Gianni Cimador, non vedeva in esso «una categoria che non esiste perché non ha realizzato il sogno di un “uomo antropologicamente nuovo, di un proletariarto che matura alla rivoluzione nel grembo caldo della borghesia, così come questa era vissuta e maturata nel grembo della società feudale in cui era annidata”». Credeva, al contrario, in un dialogo importante e illuminante tra discipline in apparenza incapaci di comunicare. Da preside della facoltà di Lettere a Trieste, racconta Gian Paolo Gri, si era battuto perché trovassero posto cattedre di insegnamento come quelle di Antropologia culturale, di Linguistica e dialettologia, di Storia delle tradizioni popolari.
Sempre lui ha tracciato con forza la strada per superare quello che definiva il «razzismo culturale» di molti studiosi e critici. Pronti a difendere e giustificare un brutto romanzo storico, scatenati invece nel negare il valore della letteratura di massa. Dei thriller, delle storie “rosa”, dei viaggi narrativi verso il futuro. Non si rassegnava davanti a certi ricercatori iperspecializzati che volevano ridurre tutta la letteratura a un rigido campo di ricerca grammaticale, sintattico, retorico. A un catalogo di parole, verbi, aggettivi, incapaci di spiegare il valore di un libro. Il suo dialogare con la realtà del suo tempo.
Petronio era pronto a smontare anche chi cerca dentro i libri una chiave interpretativa legata all’insegnamento di Freud, Jung, Lacan, preferendo la via psicoanalitica a un’analisi precisa, sfaccettata del testo.
Invecchiato senza mai smettere di leggere e di appassionarsi ai libri («Quando finisce una lunga giornata di lavoro, sorrido al pensiero di un Simenon che mi aspetta», amava dire), Petronio era un uomo che, anche al di là della soglia dei novant’anni, non ha mai smesso di credere nei propri simili. Resistendo agli «utopismi catastrofici, agli irrazionalismi mascherati di razionalità e di tecnologia, al culto del pensiero negativo e nichilista», ha lasciato un messaggio che ancora oggi fa riflettere. Perché era fermamente convinto che «nella notte balugina sempre il profilo di un’alba». E che «gli strumenti che causano distruzioni e lutto apportano pure emancipazione e progresso, che modificare il mondo è ancora possibile, con l’uso illuministico della ragione e la volontà confederata degli uomini».
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