Prigioniero degli altipiani, in Etiopia col sogno mai infranto di un impero

Paolo Marcolin
La vicenda dei militari italiani che durante la seconda guerra mondiale caddero prigionieri è stata a lungo rimossa; eppure riguardava oltre un milione di soldati. Seicentomila finirono nei lager tedeschi dopo l'armistizio dell'otto settembre, quelli catturati dagli inglesi in Africa settentrionale e in Etiopia furono circa 400.000. A guerra finita, il mesto rientro a casa, dopo anni passati in condizioni a volte molto dure che costarono la vita a parecchi di loro, fu accolto generalmente con fastidio dai civili. Lo racconta bene Eduardo de Filippo in Napoli milionaria, dove il protagonista, rientrato dalla prigionia in Germania, non capisce perché nessuno si interessi alla sua storia mentre al termine della prima guerra tutti si informavano, volevano sapere del Carso e delle battaglie per Trento e Trieste.
Il rientro di Umberto, il 'Prigioniero degli altipiani' (La nave di Teseo, 313 pagg., 15 euro) di Roberto Franchini, avviene invece nel silenzio di uno che si porta dietro una doppia sconfitta. Perché al fascismo Umberto ci aveva creduto ed era andato volontario nella guerra d'Etiopia quando si era trattato di conquistare un impero. Che per uno come lui, nato sull'altipiano sopra Vicenza, voleva anche dire la speranza di guadagnare qualcosa da mandare a casa alla giovane moglie e fare una vita migliore. E ce ne sono stati tanti, che migrarono in Africa seguendo il sogno di dare una svolta alle proprie vite non solo militari.
Umberto li vede, mentre indossa la sua uniforme di guardia forestale e gli passano accanto, sono contadini, impiegati statali, avventurieri che vanno a popolare l'impero. Noi andiamo laggiù per la fama, loro per fame, gli scappa di pensare. Una volta conquistata l'Etiopia, Umberto si trova a fare i conti con gli approfittatori che fanno i giochi di prestigio con le bolle di consegna dei tronchi d'albero, o con quelli che lucrano sulle scorte di benzina. A poco a poco si rende conto che il fascismo è corrotto. Ma il suo non è, nè mai diventerà, antifascismo, è un uomo che non ha le basi per maturare una coscienza diversa.
Umberto è un fascista e lo rimarrà anche dopo la sconfitta, quando gli inglesi arrivano ad Addis Abeba e lo prendono prigioniero. Il racconto che farà una volta tornato a casa, battendo i tasti della macchina da scrivere per cercare di colmare la distanza di anni che si è scavata col figlio, cresciuto senza di lui, diventa a questo punto pura avventura. Cercherà di scappare due volte, la prima addirittura meditando una impossibile fuga con un motoscafo, la seconda percorrendo a piedi centinaia di chilometri nelle pianure africane. Ripreso, si troverà a girare nei diversi campi di prigionia, dove non mancavano i contrasti tra i reclusi, cioè tra chi divenne “badogliano” e chi preferì restare “fascista”.
Franchini, giornalista emiliano per anni direttore dell'Agenzia di informazione della regione Emilia-Romagna, nel disegno più ampio di una vicenda a lungo dimenticata, ha indagato il senso di estraneità degli esuli e la nostalgia per la patria lontana che si specchia negli occhi di Umberto. —
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