Quando la Storia è “grande” persino le vite minuscole sono importanti

Vite minuscole. Non perché minori o poco importanti. Ma perché inserite nel ciclo maiuscolo della Storia. Di cui sono parte esemplare. I buoni romanzi, nella cornice di grandi eventi reali, ne...
Vite minuscole. Non perché minori o poco importanti. Ma perché inserite nel ciclo maiuscolo della Storia. Di cui sono parte esemplare. I buoni romanzi, nella cornice di grandi eventi reali, ne diventano veicoli carichi di emozionanti suggestioni. Vite come quelle dei personaggi de “
Il segreto
” di
Antonio Ferrari
(
Chiarelettere, pagg. 336, euro 18,00
). Personaggi d’invenzione, come Ron J. Stewart, killer per conto dei servizi segreti Usa, il professor Mario Crotti e il suo collega e complice parigino Alain Lapierre, l’ex operaio Giusto Semprini, l’investigatore francese Jean Paul Tissier, il capo terrorista Franco Morozzi e altri ancora. I nomi sono di fantasia, ma le somiglianze con protagonisti della storia vera molto forti. E verissima una delle persone chiave: Aldo Moro, il leader Dc rapito e poi ucciso dalla Brigate Rosse nella primavera del 1978.


Perché questo è il romanzo di Ferrari, eccellente inviato del “Corriere della Sera”: una credibile ricostruzione in forma romanzata di quella stagione della storia italiana, in cui servizi segreti internazionali, massoni rotti a ogni affare illecito, estremisti, politici corrotti e criminali d’ogni tipo tramano e trafficano per ostacolare le ipotesi di rinnovamento della politica italiana fondate su un originale dialogo tra Dc e Pci. Il romanzo era stato chiesto nei primi anni Ottanta a Ferrari dai vertici della Rcs. Poi però era finito in un cassetto. Adesso torna alla luce e arriva in libreria. Utile, in forma di fiction, a chiarire pagine cupe della nostra storia recente.


Si muove su un analogo doppio registro, fiction e realtà, anche
Piero Colaprico
, brillante giornalista e scrittore, con “
La strategia del gambero
” (
Feltrinelli, pagg. 348, euro 18,00
). Qui si tratta di disvelare gli affari e i legami della ‘ndrangheta, insediata tra Milano e un ricco e avido paese della Brianza. In scena Corrado Genito, ex ufficiale dei carabinieri, finito in galera per i suoi modi troppo disinvolti. E, accanto e contro di lui, capimafia, uomini dei “servizi”, sindaci corrotti, truffatori, proprietari di night equivoci, ex militari slavi. Certe atmosfere ricordano quelle di Poisonville, la città dei gangster raccontata da Dashiell Hammett in “Piombo e sangue”. In Colaprico, di più, c’è la forza della cronaca, la conoscenza profonda dell’attualità. Si spara, si ricatta, si confessa, ci si scambiano soldi, si consumano vendette. Quelli che vincono non sono necessariamente i migliori, secondo lo schema di “buoni” e “cattivi”. Alla fine, comunque, sono un bambino innocente e una ragazza ribelle, personaggi minori, ad avere la meglio, conquistando affetti e libertà.


Si diventa adulti, facendo i conti con la durezza tagliente della realtà. E delle sue radici nel passato. Come scopre, nel passaggio d’età e di rapporto con il padre e con la propria fragile identità, Antonio, il protagonista di “
Le tre del mattino
” di
Gianrico Carofiglio
(
Einaudi, pagg. 176, euro 16,50
): aveva vissuto, da adolescente, la pesantezza dell’epilessia e lentamente se n’era fatto una ragione, pensando alla relazione tra malattia e talento (erano epilettici Aristotele, Pascal, Giulio Cesare, Moliere, Tolstoj, Leonardo, Beethoven, Van Gogh e tanti altri). Poi, anni dopo, durante un viaggio di controllo a Marsiglia, per due giorni e due notti, Antonio e il padre, matematico famoso e uomo spigoloso, si ritrovano insieme, in una serie d’avventure che li portano a scoprirsi e ritrovarsi, in un’improvvisa esplosione di sincerità e d’amore. Tutto cambia, per entrambi. Tutto diventa anche dolorosamente più chiaro. E condensato in poche righe d’una lettera con una citazione di John von Neumann, grande scienziato: “Se la gente crede che la matematica non sia semplice, è soltanto perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita”. Tutt’altro che minuscola, anche in questa vicenda.


Il passato, appunto. E la controversa relazione con la memoria. Di cui risuona chiara l’eco in “
Sangue giusto
” di
Francesca Melandri
(
Rizzoli, pagg. 527, euro 20,00
). La Storia è quella dell’impero italiano in Africa Orientale, tra il 1936 e il 1945, con le sue pagine più crudeli e mai ben emerse nel dibattito pubblico (non erano tutti “brava gente”, i colonizzatori italiani, ma commisero stragi, usarono i gas contro le popolazioni civili, depredarono e si macchiarono di crimini razzisti, come racconta bene un altro romanzo di grande qualità storica e di “fiction”, “I fantasmi dell’Impero”, di Marco Consentini, Domenico Dodaro e Luigi Panella per la Sellerio).


Quella storia irrompe nella vita di Ilaria Profeti con l’arrivo di Shimeta, un migrante che ha in comune con lei una parte del cognome. E comincia “tutto questo scoprire” sul padre Attilio, le vicende di guerra mai raccontate, le nere pagine fasciste, le bugie. E le tracce d’un amore africano, i vincoli del sangue, il bisogno di sapere su appartenenze, paternità, verità. I percorsi di vita e i ricordi di Ilaria e Shimeta si incrociano e divergono. Ma le loro vicende svelano, nel microcosmo di fatti personali, aspetti generali: la conquista, la violenza, l’emigrazione, il bisogno forte di identità e speranza che suonano analoghi a quelli di migliaia di altre persone. Vite maiuscole.


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