Quando Manganelli sognò la Transafricana ma poi lanciò l’allarme

Il disegno di una grande opera ingegneristica e uno scrittore chiamato dalla società di costruzioni a valutarlo: nel 1970 una multinazionale di nome "Bonifica" stila il progetto di un'autostrada lungo la costa dell'Africa orientale, dal Cairo a Dar es Salaam, denominata "Transafricana1". Per lo studio di fattibilità si decide di coinvolgere - in una serie di sopralluoghi - ingegneri, fotografi e anche un grande scrittore, niente meno che Giorgio Manganelli. Il quale accetta, dietro un compenso di tre milioni di lire (cifra per quei tempi tutt'altro che modesta), di recarsi in Africa per due mesi e stilare poi una relazione. Ora quel testo rivede la luce per la cura di Viola Papetti in un prezioso volumetto: Giorgio Manganelli, Africa (Edizioni Otto/Novecento, pagg. 84, euro 10).
Si trattò per lo scrittore di un momento fondamentale nella sua esperienza di vita e nella sua carriera di autore. Il continente africano, nella sua radicale alterità, sollecita in lui reazioni forti e spesso contrastanti. «Dall'infanzia, una oscura memoria di esploratori ci suggerisce un'Africa per uomini forti, recenti letture giornalistiche suggeriscono un'Africa immersa in un'allusione cannibalesca che ci consente una agevole superiorità etica e un brivido di rassicurata lontananza». In altre parole, Manganelli ingloba e insieme supera quell'idea di "orientalismo" che qualche anno più tardi verrà messa a fuoco Edward Walter Said con il suo celebre saggio Orientalismo (1978), in cui lo studioso di origine palestinese attribuiva agli orientalisti (vale a dire agli studiosi di cose orientali e agli scrittori da esse affascinati) la responsabilità di aver favorito la colonizzazione, materiale e culturale, avendo essi contribuito alla formazione di stereotipi non rispondenti alla realtà.
Manganelli invita invece a valorizzare le diversità culturale nella sua specificità, attribuendo all'alterità dell'"Africa-Oriente" che va esplorando un valore positivo. Per farlo, l'autore diventa antropologo, stabilendo un confronto serrato tra sé e l'altro, tra l'Europa e l'Africa, tra la solidità delle certezze che si lascia alle spalle e l'indeterminatezza del mondo che ora si spalanca davanti ai suoi occhi: «Collocata in una sorta di quadrivio intercontinentale, l'Europa non può non avvertire il carattere abnorme dei suoi privilegi e delle sue responsabilità. Ai suoi confini si affacciano sobborghi continentali che hanno in comune alcuni caratteri drammaticamente evidenti. Dove l'Europa organizza via via sempre più minutamente il proprio spazio, stendendo una rete di infrastrutture altamente specifiche, gli altri continenti offrono l'immagine di uno spazio talora embrionale organizzato, talora del tutto originario».
Viola Papetti ricorda nella sua postfazione alcuni gustosi aneddoti del soggiorno africano di Manganelli: trovava intollerabile dormire in due in una stanza, eppure dovette adattarvisi; si svegliò in piena notte per assistere all'arrivo del leone nel guado, ma lo perse; però riuscì a vedere i coccodrilli che scendevano in spiaggia mentre la comitiva andava su una piccola barca dal lago Alberto al lago Vittoria; a Mombasa chiese l'indirizzo dell'albergo a un poliziotto ubriaco che lo prese per mano e non voleva più lasciarlo. Nacque poi un'importante amicizia, destinata a durare a lungo, quella con un ingegnere di nome Gianni Filippi, esperto viaggiatore, uomo di mondo e playboy, che per Manganelli diventerà una preziosa guida nella movida delle notti africane.
Alcuni documenti epistolari testimoniano lo stato d'animo di Manganelli, che in una lettera definisce il viaggio “splendido e massacrante" e parla di "impressioni a valanga", difficili da ordinare e razionalizzare. Quella del continente nero è una "natura edenica, che ancora odora di creazione", perché l'Africa è "magmatica, informale, deforme, il grande corpo planetario che essuda forme, coaguli di immagini, carmina e amuleti: una terra in cui l'uomo, essere labile e spaventato, ininterrottamente tratta la propria sopravvivenza con l'indifferenza del mondo".
La relazione finale in merito al progetto dell'autostrada transafricana ne criticherà le ragioni profonde, indirettamente tacciandolo di neocolonialismo. Lo scrittore registra infatti un dato che non manca di denunciare: «L'Europa ha proposto all'Africa alcuni modelli ideologici e istituzionali, e le ha imposto alcuni elementi di organizzazione economica, insoddisfacenti ma che alludono a un nuovo assetto sociale, ed esigono un nuovo organismo territoriale; ha anche importato in Africa una più sottile e volatile materia estranea: costumi, oggetti, e più ancora una certa implicita tavola di valori, il cui inserimento nel cuore della civiltà africana è strettamente mescolato al sorgere del nuovo, specifico "malessere" del continente». Un malessere che, evidentemente, la nuova autostrada con il suo indotto e le sue conseguenze non farebbe che acuire. La speranza di uno sviluppo economico avrebbe potuto - questa la preoccupazione di Manganelli - «dare il colpo fatale al mondo della tribù, al tempo lento della vita, la preistoria patologica. Chi può misurare quanto sia fondata e irreparabile la ferita simbolica che a questa vita viene dal passaggio di un aereo, o dal contatto con il metallo di una macchina?».
Era un allarme non troppo dissimile da quello lanciato in quegli stessi anni da Pier Paolo Pasolini, il quale denunciava come una modernizzazione accelerata, in cui lo "sviluppo" non corrispondeva a un reale "progresso" (indicando il primo termine un dato meramente economico quantitativo, svincolato da quella dimensione culturale e qualitativa significata dal secondo), rischiava di far scivolare le culture dei Paesi di quello che allora si chiamava Terzo Mondo verso una pericolosissima omologazione globale.
Ma se Pasolini portò queste tesi alle estreme conseguenze, Manganelli ebbe qui meno coraggio, decidendo di "addomesticare" la sua relazione in una seconda versione più accetta alla società che gliel'aveva commissionata e che per questo lo retribuiva lautamente. Comunque le perplessità dello scrittore non mancarono di pervenire a chi di dovere. E forse anche per questo, alla fine, l'autostrada non si fece.
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