Quei primi versi di Pasolini che inutilmente Saba volle dare ad Anita Pittoni
Esce per Ronzani uno studio bibliografico sulle prime raccolte in versi del poeta di Casarsa. Edizioni stampate in proprio oggi rarissime che dovevano essere pubblicate sullo Zibaldone

“Il grande poeta si vede dalle poesie sbagliate”. Così Saba chiude, con una frase volutamente a effetto, una lettera ad Anita Pittoni.
Siamo nei primi anni Cinquanta e il poeta le ha fatto avere tramite il ‘buon Carletto’, assieme alla lettera, una copia di un libretto di Pier Paolo Pasolini dal titolo ‘I pianti’.
Saba vorrebbe che la Pittoni pubblicasse nelle sue eleganti edizioni dello Zibaldone le poesie di quel giovane friulano allora sconosciuto. In lui Saba vedeva un po’ di sé stesso giovane e glielo scrive: “È molto terreno, semplice e pieno di luci”. È il Saba delle cose leggere e vaganti, quello della rima fiore amore, cui pensa. La linea, antica e ormai tramontata, è quella. Saba la rimpiange, e tanto rimpiange il sé stesso di una volta, tanto è colpito dal giovane friulano. Al punto da vedere, nel poemetto che Pasolini ha composto come omaggio per la propria nonna, il ritratto della sua nutrice, quella Peppa Sabaz che era per lui come una madre e dalla quale prese lo pseudonimo.
Ma Pasolini deve ancora maturare: ha scritto poesie sbagliate, d’accordo, ciononostante Saba intravede nel giovane il “saldo passo del poeta”. La raccomandazione di Saba non ebbe esito, la Pittoni non tramutò in una delle sue artigianali edizioni quel libro o qualche altra plaquette di versi che Pasolini, in quei primi anni del dopoguerra, faceva circolare sotto l’egida dell’Academiuta di lenga furlana, una conventicola di poeti che aveva costituito nel 1946. Erano quelle le prime prove di Pasolini poeta, a Casarsa, tra i gelsi della campagna friulana e le risorgive dove faceva il bagno con gli altri ragazzi e cominciava ad avere i primi turbamenti erotici. In quegli anni Pasolini matura quel vagheggiamento di un mondo arcaico e leggendario che gli si frantumerà tra le mani e per la cui fine incolperà il consumismo, criticando fino alla fine dei suoi giorni la società che nasce negli anni del boom economico.
Eppure è lì, nella sua stanza dipinta coi colori rossoblù del Bologna di cui è tifoso, che prende forma il suo ‘sogno di una cosa’ che rimpiangerà per sempre. E cosa sarà, il suo famoso lamento per la scomparsa delle lucciole, se non l’impossibile desiderio di vederle accendersi di nuovo nella sera, nelle campagne tra Versuta, San Vito e Casarsa? Il Pasolini delle origini scrive in friulano e stampa a proprie spese, sfidando, scrive lo stesso autore, ‘gli orrori della tipografia artigiana’, diverse raccolte. Tutte, da “Poesie di Casarsa” del 1942 a “Tal còur di un frut” del 1953, passando per tutti e quattro gli “Stroligut” e poi “I pianti”, “Poesie”, “Diarii”, “Dov’è la mia patria” (vero e proprio libro d’artista con le illustrazioni di Zigaina), prendono posto sugli scaffali della libreria di via San Nicolò dove Saba, ormai anziano, le legge e ha un sussulto. Ma questo sono io quaranta, cinquanta anni fa, pensa. E vuole rivestire quelle opere di un manto autoriale. Così scrive alla Pittoni una lettera e la allega a una copia de ‘I pianti’. Questa lettera, che è stata ritrovata dal libraio antiquario Simone Volpato, è diventata il perno di un volume appena edito da Ronzani dal titolo “Incunaboli di Pasolini. Le edizioni friulane 1942-1953 nella biblioteca di Bruno Lucci” (pagg. 164, euro 19) con la prefazione di Franco Zabagli. Un libro corale, scritto con altri studiosi come Lisa Gasparotto, Gabriele Zanello, Marco Menato ed Ivan Crico, con le foto di Massimo Battista. Per ogni volumetto viene effettuata una descrizione tecnica e tipografica che permette anche di datare il giorno esatto in cui i libretti uscivano dalla tipografia. La scelta del termine incunabolo è una forzatura, ammette Volpato, curatore del volume, che serve a sottolineare i primordi dell’attività pasoliniana rivolta ad un pubblico che era allora composto soprattutto, per non dire esclusivamente, da amici. E che forse trovava qualche occasionale acquirente nelle sagre di paese, dove venivano venduti i libretti che, scritti in friulano, magari riuscivano più accattivanti per la gente di paese. Ma Pasolini, una volta a Roma, sconfesserà questi libri, che riteneva non avessero valore al di fuori di quel preciso contesto di affetti e luoghi. L’operazione di riprendere in mano i delicati reperti editoriali nasce da una delle più importanti collezioni di letteratura friulana, appartenente a Bruno Lucci, già Primario di Neurologia a Pordenone, che comincia ad apprezzare la produzione poetica di Pasolini come una reazione/cura allo shock del terremoto in Friuli del 1976. Lucci, emiliano di origine trapiantato in Friuli, si appassiona alle poesie di Pasolini e comincia a cercare quei volumi, ormai rarissimi, tra le librerie antiquarie e racconta che il primo, ‘Poesie a Casarsa’, lo paga 50 mila lire. E se uno volesse leggere quegli antichi libri senza passare per il mercato antiquario? Qui la parola passa a Marco Menato, che oltre a fare una rassegna della consistenza delle opere di Pasolini nei cataloghi bibliografici della regione, lamenta la mancanza di una politica culturale fatta come si deve, che recluti bravi bibliotecari che sappiano gestire una raccolta. Perché un libro mal collocato è un libro perduto.
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