Qui Trieste, dove il mare si fonde con il cielo e il pensiero è capace di contenere l’incontenibile

L’infinito visto da Michelstaedter, ma anche la ricerca di un “amico” lasciato in altri luoghi: o che deve arrivare
O del nessun luogo. Jan Morris arrivò a Trieste come James Morris, ufficiale dell’ intelligence britannica.Nel 1972 diventò donna, e scrittrice. Max Calò, disegnatore e grafico, vive fra Londra e Trieste
O del nessun luogo. Jan Morris arrivò a Trieste come James Morris, ufficiale dell’ intelligence britannica.Nel 1972 diventò donna, e scrittrice. Max Calò, disegnatore e grafico, vive fra Londra e Trieste

TRIESTE. Carlo Michelstaedter inizia così una sua poesia «Amico, mi circonda il vasto mare / con mille luci – io guardo all’orizzonte / dove il cielo ed il mare / lor vita fondon infinitamente ».È importante leggere questi versi a partire dal luogo e il tempo in cui sono stati scritti, ovvero la città di Pirano nel 1908. Certo, Pirano non è Trieste e tra i due luoghi si mantiene una distanza geografica, culturale e di sentire che di certo non è mia intenzione (non sarebbe corretto) appianare.

Però, di entrambe queste coordinate geografiche si può forse parlare come di spazi che si prestano costitutivamente al darsi in maniera strabordante (come fossero soggetti con un’anima) verso un identico mare, l’Alto Adriatico. Mi sembra, o almeno ne ho da sempre la sensazione, che Trieste in qualche modo sia una città non bastante a sé e a chi la abita, un luogo da cui ogni discorso cerca di protendersi verso altri paesaggi, dialoghi lontani e non sempre riusciti, possibilità di somiglianze spesso mancate.

Si è sempre in cerca, da Trieste, di quell’«amico» lasciato in altri luoghi o ancora in potenza di venire, quel dialogo per ora assente che spinge quasi una città a sporgersi in una tensione irrisolta sia verso altre dimensioni di terra (il Carso), sia verso il mare «vasto» che «circonda». E qui, tra un darsi in direzione della terra o del mare, c’è tutta una differenza che è di ogni biografia, di tanti artisti di questa città: perché il mare, fondendosi con il cielo «infinitamente», diventa oggetto apparentemente capace di contenere l’incontenibile di un pensare umano che vuole superare se stesso («a noi, i più svanenti» scrive Rilke nella IX elegia duinense), mentre la terra rimane evidenza materica di un non accoglimento, di una dissomiglianza che costringe al vagare, che si fa cammino e casa mancata («con il campo che non è un mondo» scrive Mario Bendetti in Umana gloria).

Anche a partire da questo, un crearsi di distanze tra le molte scritture nate a Trieste, a cominciare da autori come Slataper, Kosovel e altri fino ad arrivare a figure come Magris o Juan Octavio Prenz. Poi, certo, ci sono le eccezioni, ovvero autori provenienti da Trieste capaci di trovare in spazi di terra quell’apparenza di accoglimento dell’incontenibile: mi piace considerare così, ad esempio, Julius Kugy, di solito svenduto come “intellettuale minore” ma a me tanto caro in quanto capace, nel suo esplorare le Giulie, di dare senso a quel verso di Mario Benedetti in Umana gloria «Siamo stati una volta a guardare il mare, molto dentro di noi, /così il suo posto è tra le montagne».

In questo vagare anarchico e sentimentale di un mio scrivere, mi piace ricordare un ultimo autore che sembrò portare con sé quanto detto finora, Luciano Morandini. Un fatto è bene precisare: egli non fu intellettuale e poeta triestino (veniva da San Giorgio di Nogaro) ma, nonostante questo, ebbe sempre importanti rapporti con l’ambiente culturale e non della città (a tal riguardo, il saggio di Carlo Londero Sillabario per Morandini edito da Campanotto). Uomo e scrittore, dunque, di terra vicina alla laguna, di un Friuli agrario in cui d’estate tornava sempre l’odore del mare non troppo lontano.

Morandini, scrittore sempre proteso verso una ricerca di dialoghi, fu amico di artisti dell’Est Europa (come lo sloveno Ciril Zlobec o Izet Sarajlić di Sarajevo) ma fu anche frequentatore di importanti realtà culturali italiane particolarmente legate ad ambienti neorealisti; in questo scrivere, però, mi interessa guardare soprattutto a un suo incontrarsi con una persona legata al mare come fu Biagio Marin. Scriveva Morandini a proposito di un trovarsi con il poeta gradese: «Trascorrevo ore con lui su quel balcone di fronte al mare, attento alle sue parole, al suo accendersi, a volte, fino all’ira e l’improperio, contro il nostro tempo incapace di ascolto, lontanissimo dalla poesia Pensavo, all’inizio, ci fosse tra noi, pur amici, incolmabile frattura d’idee ».

Proprio in questa frattura, ecco, la possibilità di guardare a un incontrarsi tra l’uomo che si dà verso la terra e l’uomo che si lascia comprendere dal mare. Una distanza irrisolvibile che però diviene profonda ricchezza, il bene e il crescere di un confrontarsi. In questo mi sembra di poter guardare Trieste, come luogo potenziale di incontri non risolti, pieni di fratture e dissomiglianze, tra sguardi capaci di darsi nel mare e tensioni rimanenti sulla terra.

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