Ricordare Macaluso l’ultimo compagno di tante battaglie in odore di eresia

Il giornalista Concetto Vecchio firma per Chiarelettere  un ritratto del dirigente del Pci tra sfide e questione sociale
Cristina Bongiorno
07/09/2013 Mestre - Festival della Politica - Emanuele Macaluso
07/09/2013 Mestre - Festival della Politica - Emanuele Macaluso



Per definire chi si è servono avversari, e meglio ancora fatti epocali. A Emanuele Macaluso non sono mancati né gli uni né gli altri, e la sua avventura umana e politica, terminata a 96 anni lo scorso gennaio, è stata raccolta da Concetto Vecchio, giornalista di Repubblica, ne “L’ultimo compagno. Emanuele Macaluso, il romanzo di una vita” (Chiarelettere, pagg. 240, euro 16).

Poco comunismo e molto Emanuele, di carne e di sangue, nelle conversazioni che si protraggono per mesi nella penombra del salottino romano dell’anziano senatore del Pci dove si impila il pane quotidiano dei giornali. «Aveva uno sguardo freschissimo sul presente; fino all’ultimo ha scritto su Facebook ciò che pensava,siglandosi em.ma come su L’Unità di cui fu anche direttore» spiega Vecchio al telefono. «E pensava che questa sinistra non è all’altezza delle sfide, che non ha un rapporto con la cultura. Che assieme al cuore ha perso anche la sua missione storica».

Pagine rapinose, quelle di Vecchio, a raccontare un esemplare uomo da combattimento, abituato alle sfide anche quando stava ai vertici. Un sindacalista, un dirigente di partito, un giornalista, sempre vissuto in odore di eresia nella chiesa bacchettona del Pci che però gli aveva dischiuso un orizzonte di emancipazione. Indipendente pur nella fedeltà in politica, infedele per indipendenza con le donne. Lina, amour fou della giovinezza, Erminia che per lui si suicidò, l’aristocratica Ninni Monroy, e l’amore ragionato degli ultimi anni, Enza d’Amelio con cui scelse di non convivere mai.

Ciascun amore segna un giro di boa nella maturazione di Macaluso. Maturazione avvenuta sotto il sole cocente della sua Sicilia, un’isola ribollente di ingiustizie. Ancora ragazzo nel primo Dopoguerra arringa le folle schivando le pallottole dei mafiosi che fanno asse con i latifondisti e fa i conti con la paura sospettosa di braccianti e zolfatari. Troppi, abbruttiti da vino e fatica picchiano moglie e figli: «Se ho iniziato a fare politica è stato anche perché non volevo sentire più intono a me quelle grida». Ripercorrendo le sue gesta anche picaresche, per Macaluso il Novecento è davvero stato un secolo breve, con la sventura di assistere alla parabola discendente degli ideali fino all’attuale abisso. In compenso a partire dagli anni 40 è tra i protagonisti dalla parabola ascendente. Dalla sua un ben preciso nemico da sconfiggere con una lotta politica capillare, determinato a partire dalla Sicilia feudale per rivendicare un mondo più giusto. «Sono diventato comunista non per ideologia, o rivalsa di classe, ma per la questione sociale» dice di sé.

E che la questione sociale non sia e non sia stata appannaggio di una sola regione, trapela nel vivido saggio di Vecchio che oltrepassa la biografia: «metà della superficie agricola apparteneva all’un per cento degli abitanti». Combinazione, oggi in scala mondiale mezza ricchezza globale è nelle mani dell’un per cento. In pratica una Sicilia allargata.

Su come si sarebbero affrontati i problemi dopo il crollo del comunismo, Macaluso, proletario di Caltanissetta dagli studi inadeguati alla sua intelligenza colmati dalle letture, non nutriva illusioni. Lui, che quando cadde il fascismo aveva 19 anni e al crollo del Muro di Berlino 65, già in età di pensione.

«Mi diceva che tutto è finito quando sono finiti i partiti di massa - sostiene Vecchio - che alla sinistra devono stare a cuore le classi disagiate, essendo rimaste senza rappresentanza, sbandano a destra o riempiono le piazze dei populisti. La generazione di Macaluso sapeva cos’è la compassione e ha denunciato. L’insegnamento suo e della sua generazione resta». —

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