Rimbaud schiavista, Genet ladro Quando l’arte è cattiva maestra

"Adesso posso dire che l'arte è una sciocchezza", scriveva Arthur Rimbaud nel lontano 1873. Certo Rimbaud era artista di grandi provocazioni e senza le sue sfide non ci sarebbe poesia moderna. La...
Di Mary Barbara Tolusso

"Adesso posso dire che l'arte è una sciocchezza", scriveva Arthur Rimbaud nel lontano 1873. Certo Rimbaud era artista di grandi provocazioni e senza le sue sfide non ci sarebbe poesia moderna. La frase fa parte di "Una stagione all'inferno" e, brevemente, ci ammonisce a non farci incantare da certo romanticismo consolatorio, soprattutto nelle paludi dell'Occidente. E poi che succede? Creata la sua opera (piuttosto) immortale, Rimbaud ripone penna e calamaio e si trasferisce in Africa a far lo schiavista e il commerciante d'armi. Oppure pensiamo a Caravaggio, che usa uno spadone ed è un tale attaccabrighe, sottolineano i biografi, da essere persona infrequentabile. Lo scrittore Edward Bunker invece si limita solo a qualche rapina e traffico di droga, mentre Genet inizia a rubare a dieci anni. Ma la lista potrebbe continuare. E a lungo.

Ecco perché affascina sempre la discussione intorno alla funzione dell'arte, a come l'arte possa, in qualche misura, migliorare il mondo quando in realtà non riesce a "migliorare" i suoi artefici. Insomma, qual è il suo fine? La conoscenza? La verità? La bontà? Del suo ruolo nella società contemporanea parla Stefano Crisafulli ne "L'arte e il grido. Percorsi filosofici tra pittura e cinema" (Asterios, pag. 85, euro 12,00). Ed effettivamente il libro è un ottimo manuale per rileggere la storia della pittura esaminata agli occhi di alcuni tra i più rinomati francesi, da Foucault a Derrida. L'autore ci permette di posare lo sguardo sulla dinamica stessa dell'idea di arte, su come si sia evoluta nel suo rapporto di dipendenza e indipendenza dalla realtà e dalla sua imitazione. Così da un'arte medioevale asservita alla teologia si passa alla centralità dell'uomo nel Rinascimento fino all'incrinarsi del rapporto tra cosa reale e cosa rappresentata nel Romanticismo. Frattura che si allarga con le avanguardie del '900.

Ogni paragrafo prevede un artista e il filosofo che si è occupato di lui. Heidegger per Van Gogh, Merleau-Ponty per Cézanne, Foucault per Magritte, Deleuze per Bacon fino alla trasgressione ormai integrata a sistema - come sostiene Žižek - e quindi non più così artistica, tesi approfondita anche da Mario Perniola. Insomma, si chiedono i filosofi: se ormai anche il trash diviene sublime, qual è la funzione dell'arte? E soprattutto - dicono Perniola e Bateson - bisogna che l'arte si proponga di superare la mercificazione e la trasgressione a tutti i costi per salvare quella "cripta" creativa su cui si sostiene. Oggi come oggi, sono almeno tutti d'accordo nel riconoscere che molto si deve all'originalità del gesto dell'artista, non replicabile. In secondo luogo è fondamentale lo spazio in un cui è inserita la sua opera: due nomi per tutti, Duchamp e Manzoni. Ma la questione è trasferibile pure in letteratura. C'è un romanzo, "Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler" (Mondadori) di Massimiliano Parente, che incarna questa idea come un ready made su carta. Dietro non c’è alcun preciso messaggio ideologico, come spesso i filosofi vorrebbero. Ma qui sta la differenza tra chi fa arte e chi l'arte la pensa, anche se nessun grande artista avrebbe il coraggio di darsi al traffico d'organi, come forse oggi avrebbe fatto Rimbaud. Per dire che il significato di un'opera, la funzione dell'arte, seduce proprio quando si svincola da ogni catalogazione. Addirittura dallo stesso artista. Si chiama: libertà. E Crisafulli, in qualche modo, riesce a comunicarcelo.

@Emmebiti

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