Ritorno in Istria tra memoir e reportage cercando il bisnonno ucciso in una foiba

Silvia Dai Pra’ firma “Senza salutare nessuno” per Laterza viaggio nella storia familiare fino a Santa Domenica di Albona



Iole è una nonna come tante. Pomeriggi passati davanti alla tv con l'ispettore Derrick prima di mettersi a cucinare patatine fritte, la messa della domenica, una vita che sembra normale nella sua banalità. Eppure tra i larghi silenzi di quella nonna ogni tanto, senza un perché, dal viso scende una lacrima. Agli occhi dell’adolescente che era Silvia Dai Pra' negli anni Novanta, quel comportamento appare strano. Come strano è il rapporto con il figlio, il padre di Silvia, che lei tiene a distanza. E lui ricambia con una magrezza estrema, che Silvia, diventata donna, capirà essere la spia di un disagio, di un tormento. C'è una cupa eredità che si stende su quella famiglia e che inceppa le emozioni torcendole verso una deriva di dolore soffocato. È un nome, questo Silvia lo saprà più tardi, scritto su una lista di persone uccise e gettate in una foiba, quello di Romeo Martini, il papà di nonna Iole.

Per l'esergo di 'Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria' (Laterza, 161 pagg., 16 euro, che esce giovedì) Silvia Dai Pra’ sceglie una frase di Ungaretti scritta tra le trincee del Carso: “cessate di uccidere i morti, non gridate più”.

I morti qui sono quelli delle foibe dell'Istria del 1943, uno dei quali, appunto il bisnonno paterno dell'autrice, Romeo Martini, venne ucciso e gettato nella foiba di Vines, vicino Albona. Cessare di ucciderli per non tormentarli più con brutali conteggi per intestarsi rivendicazioni inseguendo vendette, distribuendo colpe o assoluzioni, come per troppo tempo è stato fatto, senza alla fine capirci poi molto. Ma il tormento è anche voler a tutti i costi cercare la verità che tutto illumini come un lampo al magnesio. Troppi anni passati, quasi tutti i protagonisti di allora ormai scomparsi, e chi c'è ancora non parla volentieri e comunque racconta una sua versione. Così l'ormai adulta Silvia, che insegna storia e ha ormai salutato per sempre nonna Iole, inizia da lì, da quel nome, un lungo viaggio a ritroso nel tempo. E lo fa tornando in Istria, nel paese di Santa Domenica di Albona, da dove nonna Iole se ne andò per sempre, senza salutare nessuno, poco dopo la morte di Romeo.

Leggendo questo libro che, come dichiara la stessa autrice, è assieme memoir, reportage e storia familiare, la figura cui più si avvicina Silvia è quella di una archeologa che, china su un torso di statua o una lancia di un guerriero appena scavate dalla terra, con estrema attenzione spolveri via il terriccio e cerchi di capire cos'era, a chi apparteneva e cosa ci faceva lì. Dietro a ogni domanda, su tutte svetta quella che esige una risposta al perché un commerciante come Romeo Martini, che era stato espulso dal partito fascista alla fine degli anni Venti, fosse stato ucciso dai partigiani. Solo perché gh'era un riccon, come le dice qualcuno? Uno dei pochi che allora possedeva un'auto poteva scatenare l'invidia a tal punto da venire ammazzato? Forse, chissà. C'era un tale allora da quelle parti, si chiamava Mate Stemberga, conosciuto come il compagno Caballero, uomo di fiducia del partito comunista croato, che odiava gli italiani, odiava i ricchi, odiava tutti. Finito male pure lui, ucciso non si sa bene da chi. Anche Silvia, dopo aver girato per paesi, entrando nelle case, ritrovando vecchie amiche della nonna, alla fine però si arresta di fronte ai troppi fili che furono tirati in quei giorni di settembre del 1943 nelle cittadine e nei villaggi istriani, tra lo squagliamento dell'esercito italiano, la calata dei partigiani titini e l'arrivo delle truppe tedesche. Ricopriamo di pietas le tombe, sembra sussurrare la voce di Ungaretti, come le foglie hanno ricoperto la foiba dei colombi di Vines, dove il viaggio nel tempo di Silvia si conclude, all'imbocco dell'inghiottitoio dove non c'è nulla se non un cavo di acciaio per evitare accidentali cadute nella cavità occultata dalla vegetazione talmente fitta che per arrivarci bisogna aprirsi la strada a colpi di machete e cesoie. —



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