Se la Cina è vicina resta lontano l’Oriente degli scrittori italiani

la recensionePantofolai, sostanzialmente riluttanti a fare le valigie, pigri e ideologicamente viziati, incapaci di identificarsi in un altrove, esotico o meno che sia. Tradizionalmente gli scrittori...

la recensione



Pantofolai, sostanzialmente riluttanti a fare le valigie, pigri e ideologicamente viziati, incapaci di identificarsi in un altrove, esotico o meno che sia. Tradizionalmente gli scrittori italiani non sono mai stati grandi viaggiatori, a differenza dei loro colleghi di lingua anglosassone. L’abitudine a vivere senza avere grandi orizzonti davanti, senza dover fare i conti con le terre estese di un impero (come per tanti autori britannici), inclini più a frequentazioni cartacee che esperenziali , gli scrittori del Belpaese non hanno mai amato mettersi davvero alla prova oltre i limiti delle proprie radici culturali. Non è un caso che non esistano in Italia autori equivalenti a un Conrad o un Jack London o un Kipling. Perciò è tantopiù interessante vedere come alcuni grandi autori della tradizione letteraria nostrana si sono misurati con il lontano Oriente. L’occasione la dà la riproposta di “Verso Oriente - Viaggi e letteratura degli scrittori italiani nel Paesi orientali (1919-1982)” di Angelo Pellegrino , ripubblicato ora da La vita Felice (pagg. 295, euro 16,50). Il saggio di Pellegrino tratteggia bene il carattere intellettuale dei nostri narratori una volta messo il naso fuori di casa. «I nostri scrittori-viaggiatori di questo secolo - nota Pellegrino - (...) sono stati in genere viaggiatori “infami”, hanno viaggiato poco e male, e quel poco, mai di tasca propria». Non solo, ma anche sotto il profilo della scrittura il viaggio non ha fatto bene agli autori italiani: «Se è vero - nota ancora Pellegrino - che il modo di viaggiare rivela l’uomo, in genere la lingua degli scritti di viaggio (...) appare più scoperta, le viene meno il sostegno della trama e dei personaggi, di solito subisce un abbassamento, e riducendosi rivela l’origine e i limiti dei mezzi».

Ed ecco allora che da Gozzano ad Alvaro, da Marinetti a Repaci, da Cassola a Flaiano, da Malaparte a Pasolini e Moravia, il confronto con il lontano Oriente più che esaltare svaluta e riduce la figura dell’italico scrittore, colto per lo più impreparato ad accogliere, intendere e compenetrare l’altrove e il diverso.

E questo nell’arco dei periodi storici in cui è suddivisa l’analisi di Pellegrino: il fascismo, che vede autori «pieni di italocentrica sufficienza» viaggiare e scrivere con «atteggiamento sostanzialmente riduttivistico». Poi gli anni Cinquanta con la moda del “reportage”, in cui «l’Oriente (...) s’identifica sostanzialmente con le speranze della rivoluzione comunista».

Infine i viaggi del benessere e l’Oriente Kitsch degli anni Sessanta-Ottanta, dove si ripropone in varie forme l’atteggiamento di chiusura più che di apertura. Come in Arbasino, che «attanagliato dall’orrore del vuoto, finisce col girare a vuoto, impegnato a riempire e ancora riempire per ricucire lo strappo dalla separazione dalla madre-matrigna cultura da cui non riesce ad affrancarsi». —



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