Steve Berry, l’avvocato snobbato dagli editori ora è un re dei bestseller

di FEDERICA MANZON Steve Berry è uno di quegli autori che non bisognerebbe mai far conoscere a un aspirante scrittore. Sessant'anni, una laurea in legge e un profilo che più bianco anglosassone e...
Di Federica Manzon

di FEDERICA MANZON

Steve Berry è uno di quegli autori che non bisognerebbe mai far conoscere a un aspirante scrittore. Sessant'anni, una laurea in legge e un profilo che più bianco anglosassone e protestante di così non si può, lo si scambierebbe per un candidato alle politiche di qualche stato del sud degli Stati Uniti. Ha gli occhi azzurri e il sorriso affidabile, più che l'aria sperduta e tormentata che siamo soliti associare agli scrittori: pensiamo allo sguardo penetrante di Raymond Carver dietro alla sigaretta o a Philip Roth fotografato nella sua cameretta con l'inquietante lettino a una piazza. No, Steve Berry non ci inquieta, ci sembra anzi di averlo già visto in qualche canale televisivo. Eppure non solo è uno scrittore, ma uno scrittore da bestseller, in Italia il suo ultimo romanzo "La congiura del silenzio" (pagg. 411, euro 18,60) è uscito da pochi mesi per l'editore Nord.

Berry è uno che quando vuole una cosa non si perde d'animo fino a quando non la ottiene. Dopo dodici anni di rifiuti e ottantacinque tentativi respinti, ha continuato a scrivere ed è stato premiato. Ma attenzione, cari aspiranti scrittori, l'insistenza non basta, ci vuole anche il talento. E Berry decisamente ne ha, a tal punto che dopo venticinque anni di ottima carriera da avvocato ha deciso di mollare tutto per mettersi a scrivere. «Tutti gli scrittori hanno una voce in testa che dice loro di sedersi davanti a un computer e scrivere» spiega in occasione del suo tour italiano. «Nell'estate del 1990 quella voce mi stava facendo uscire pazzo, così ho provato a zittirla facendo quello che mi chiedeva. Con molto esercizio e fatica è uscito il mio primo romanzo "The Amber Room" che però è stato rifiutato».

I molti rifiuti e successivi bestseller ci dicono qualcosa sull'imprevedibilità del mercato del libro?

«Non credo. Ero semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato: scrivevo storie di spionaggio ed era l'inizio del 1990, il muro di Berlino era caduto, i due blocchi si stavano sciogliendo e gli editori non ne volevano più sapere di spy story».

Poi i tempi sono cambiati...

«"The Amber Room" nel 2002 è stato comprato dallo stesso editore che nel 1985 l'aveva rifiutato. E questo grazie a Dan Brown. "Il codice Da Vinci" ha cambiato tutto per me. Ha portato in auge un genere che si basava su azione, cospirazioni, segreti: esattamente quello che scrivevo io. Gli editori ne cercavano a piene mani andare dietro alla coda del loro gemello da milioni di copie».

Perseverare paga. Ma il sogno di scrivere da dove nasce?

«Da due libri che mi hanno cambiato la vita. Uno l'ho letto quando avevo dieci anni, si chiamava "Twisted Claw" e aveva tutti gli ingredienti che a me piacevano suspense, storia, complotti. L'ho amato molto e lo conservo ancora nella mia libreria. Era un romanzo di quelli che oggi si definirebbero per giovani adulti. E poi c'è un altro libro che ho letto quando ero più grande: "Hawaii" di James Michener, il re delle saghe a sfondo storico, che ha avuto su di me una grande influenza. Ci sono voluti vent'anni a quel seme per germogliare, ma non ha m. ai smesso di crescere».

Nella sua vita ora qual è l'equilibrio tra scrittura e lettura?

«Il novanta per cento del tempo lo dedico a pensare a quello che scrivo e questo vuol dire leggere, interessarsi, raccogliere informazioni. Il resto dieci per cento scrivo. La parte dell'invenzione è senza dubbio quella più difficile».

Lei insegna scrittura creativa in giro per il mondo, ma si può insegnare a scrivere?

«No, è impossibile. Quello che si può fare è insegnare a una persona a insegnare a se stesso come scrivere. Ed è quello che è capitato a me: per anni ho preso la macchina ogni sera per andare a sentire persone che mi insegnavano a trovare il mio personale modo di scrivere, la mia voce. Io faccio lo stesso nei miei corsi».

Come funziona?

«Prima di tutto analizziamo la struttura di una storia, che è la parte fondamentale. Poi chiedo alle persone di andare a casa, scrivere, e successivamente di tirare fuori l'analisi fatta in classe e vedere cosa sbagliano. Non insegno nulla, faccio solo vedere gli elementi chiave per la costruzione di un racconto, poi sta a loro esercitarsi. Scrivere non è per nulla una strada facile, non ci sono scorciatoie: bisogna scrivere e scrivere, lavorare molto. Le persone che hanno insegnato a me non mi davano risposte o soluzioni, mi dicevano solo: "vai a casa e rifletti"».

Usando la sua attività di scrittore è riuscito anche a guadagnare grandi somme che ha devoluto a sostegno di iniziative culturali, quindi con la cultura si più vivere?

«Non bisogna lasciarsi ingannare: vivere facendo lo scrittore è molto difficile. Oggi le pubblicazioni indipendenti offrono delle possibilità di guadagno non piccole, ma essere pubblicati da una casa editrice newyorkese è veramente difficile e anche se uno ci riesce è molto raro che possa permettersi di fare lo scrittore a tempo pieno. È un mondo molto agguerrito. Vieni invitato a tenere corsi di scrittura solo se il tuo libro ha avuto successo».

Cosa sta cambiando nel mondo del libro con la concorrenza di Facebook, Twitter, Youtube?

«Sicuramente il libro cambierà, cambierà il modo di avere informazioni e le storie arriveranno contemporaneamente da fonti diverse. D'altra parte il libro non è estraneo a questi cambiamenti: siamo passati dalla pietra alla pergamena alla carta e ogni volta c'è stato un accrescimento del numero dei lettori. Sono convinto che il libro sia destinato a rimanere, ma parcellizzato in forme molto diverse, più economiche e veloci. Le persone continueranno a leggere, anzi sempre più persone leggeranno. Il libro forse perderà un po' della sua antica sacralità, ma d'altra parte sono più di vent'anni che andare in libreria, scegliere un romanzo e portarselo a casa, scartarlo e annusarlo non è più qualcosa di speciale. I lettori continueranno a leggere ma sarà solo una forma dell'intrattenimento assieme a molte altre. Basta vedere come ai bambini e ai ragazzi non importa più su quale supporto gli arriva una storia, gli basta poterla leggere».

Questo cambia qualcosa per uno scrittore? Per il suo modo di inventare storie?

«No, non credo. Raccontare una storia potrà subire dei miglioramenti marginali ma nella sostanza è un sistema perfetto dai tempi di Platone. Se ci pensiamo, le storie che ci piacciano sono quelle che funzionano, che hanno una buona struttura e sono raccontate bene e questo sarà valido su tutti i supporti del futuro».

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