Tomizza portò in scena la primadonna Borboni e Veronica, futura first lady

Le opere
Fulvio Tomizza esordisce alla grande come autore di teatro: la sua opera prima, “Vera Verk”, viene rappresentata sul prestigioso palcoscenico del lirico Giuseppe Verdi il 2 gennaio 1963. Fu per combinazione: lo Stabile che, sentita l’esigenza di creare una “scuderia” di drammaturghi giuliani, aveva accolto con favore la tragedia del giovane Tomizza, si era trovato senza la sala dell’Auditorium, diventata inagibile. Un accordo con la Sovrintendenza del Verdi permise allo spettacolo di vedere la luce.
Questo è uno degli innumerevoli episodi che Paolo Quazzolo racconta nel suo libro “Fulvio Tomizza Teatro” (edizioni E&S Spoleto, pagg. 488, 25 euro), che esce nel ventennale dalla morte dello scrittore. Quazzolo, professore associato di Storia del Teatro all’Università di Trieste, «colma una lacuna – spiega Elvio Guagnini – nella bibliografia tomizziana indicando i percorsi di un autore la cui attività teatrale non è stata un episodio nella carriera di narratore ma un itinerario parallelo e non certo secondario».
Basta guardare le date. Tomizza esordisce, a 25 anni, come narratore con “Materada” nel 1960, tre anni dopo come autore teatrale, ma nel contempo pubblica “La ragazza di Petrovia”. Le attività di romanziere e di commediografo si intrecciano e «si ha la percezione – sempre secondo Guagnini – di quanto l’esperienza maturata con la frequentazione del mondo e delle pratiche dello spettacolo contasse anche nella sua esperienza di romanziere».
Tomizza fa le prime esperienze con il teatro a Belgrado e a Lubiana. Nato a Materada (Umago, nel 1935), vive da bambino il fascismo e la guerra; frequenta gli ultimi anni del liceo nella Capodistria occupata dagli jugoslavi; attratto dagli ideali socialisti, accetta – a differenza dei suoi familiari – di vivere nel sistema comunista. Una scelta coraggiosa che connoterà le scelte successive di vita e di lavoro. Sperimentato il fallimento di quel sistema, arriva a Trieste. È un ragazzo di vent’anni con «un’esperienza – che comprende un dramma familiare, la morte del padre ammalatosi in seguito alla persecuzione politica – che avrebbe potuto far compiere al giovane scelte radicali. Invece no. Tomizza, intimamente legato alla sua terra e alle sue genti, sceglie la difficile strada dell’analisi, della conoscenza che porta alla comprensione dell’altro»: come spiegano negli “Itinerari tomizziani a Trieste” Stella Rasman e Patrizia Vascotto.
Nell’esilio triestino deciderà il suo futuro: scrivere. Dopo un inizio nel giornalismo (a Radio Trieste – poi sede Rai), fa il suo esordio come scrittore con il citato “Materada”, bene accolto dai maggiori critici italiani. Seguono altri successi: “La ragazza di Petrovia” e “Il bosco di acacie”, riuniti poi con il primo nella Trilogia istriana.
Nel corso degli anni, Tomizza ambienterà diversi romanzi a Trieste, diventata la sua città non solo per il fatto di abitarvi, ma perché è qui che matura come scrittore e come uomo: “La città di Miriam”, “Dove tornare”, “L’albero dei sogni”, “L’amicizia”, “Gli sposi di via Rossetti”, “Franziska”, “I rapporti colpevoli”, e il postumo “La visitatrice”. Alla sua originalità di pensiero arriva un consenso ampio, di critica e pubblico, nel 1977 con “La miglior vita”, Premio Strega, tradotto in dieci lingue.
Ma torniamo al Teatro, le sue esperienze sono estremamente valide. “Vera Verk” fa il botto anche grazie a un cast di eccezione formato da Paola Borboni, Fosco Giacchetti, Marisa Fabbri, Enzo Montagnani (grande attore anche se poi si era svenduto a film scollacciati) e Lino Savorani per citare solo i principali interpreti, con la regia di Fulvio Tolusso, le scene e i costumi di Nino Perizi e le musiche di Raffaello de Banfield.
Nonostante lo sfolgorante inizio Tomizza avrà poi una strada in salita nei tredici anni in cui lo Stabile triestino metterà in scena le sue opere. Anche per i suoi ripensamenti, come accade per “Ritorno a sant’Elia” che decide di non mettere in scena “per ragioni personali invalicabili”. Segue la “storia di Bertoldo” nel ’69 in cui Tomizza attinge alle sue radici contadine, tanto da far dire a Giulio Viozzi, autore delle musiche dello spettacolo, che in esso c’era «molto più Tomizza che Croce», alludendo a Giulio Cesare Croce, autore secentesco di “Bertoldo e Bertoldino”, da cui la commedia è tratta.
Tralasciando gli altri spettacoli, con l’invito a leggersi l’accurata e ampia opera di Quazzolo, soffermiamoci su “L’Idealista” . L’offerta di scrivere una riduzione teatrale del “Martin Kačur” di Ivan Cankar, uno dei massimi drammaturghi sloveni, era stata fatta da Tomizza allo Stabile che, nel ’76, direttore Sergio D’Osmo, presidente Guido Botteri, decide di accettarla. Tomizza, che stava scrivendo “La miglior vita” sospende il lavoro sul romanzo per dedicarsi alle scene. Qui egli può svolgere al massimo grado il ruolo che gli era più congeniale di mediatore tra culture diverse, può aprire i confini con quel mondo che ci sta vicino e che lui conosceva appieno.
Anche per questa piéce il cast è d’eccezione a cominciare da Corrado Pani, Leda Negroni e Carlo Cataneo. C’è anche Miriam Bartolini, che diventerà nota fuori la palcoscenico come Veronica Lario in Berlusconi. La regia è di Francesco Macedonio, scene e costumi di Sergio D’Osmo, musiche di Giampaolo Coral.
Nell’utilissimo volune di Quazzolo, sono raccolte tutte le opere teatrali di Tomizza e di ognuna è spiegata la genesi, gli autori di riferimento e il lavoro svolto dallo scrittore istriano, uno dei più grandi del Novecento italiano. E non si può dire di conoscerlo se non si ha letto questo libro. —
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