Trieste Film Festival al via col Gorbachev di Herzog e Ponziana di Erika Rossi

Stasera al Rossetti inaugurazione della rassegna con la pellicola del grande maestro tedesco L’edizione numero 30 attraversata dalle celebrazioni per la caduta del Muro di Berlino 

TRIESTE L’avevano annunciato, che sarebbe stato un festival inclusivo, con una visione aperta a dar luce alle tante anime che innervano il cinema dell’Europa centro-orientale e uno sguardo rivolto anche dentro casa propria. Il Trieste Film Festival inizia oggi il suo cammino e a poche ore di distanza propone due titoli che mettono subito in pratica le linee programmatiche dichiarate. Apre infatti con due documentari su esperienze singole e corali che, con la forza deflagrante e innovatrice della loro opera hanno mandato in frantumi sistemi e spezzato argini, condizionando, in passato o nella più stringente attualità, il tessuto sociale circostante. Chi addirittura l’intero equilibrio politico mondiale per tutti gli anni a venire, come sottolinea il primo film, firmato da un regista di fama come il tedesco Werner Herzog; chi varando un’esperienza socio-sanitaria talmente all’avanguardia dall’essere studiata dall’America al Giappone ma che paradossalmente proprio qui a Trieste, nella città dove si è sviluppata, sembra essere misconosciuta o data per scontata: e nel secondo film è proprio un’autrice triestina, Erika Rossi, a farci immergere in questa realtà così virtuosa e poco nota.

La perestrojka e l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica sotto la lente inedita di uno dei massimi registi europei: è “Meeting Gorbachev” il film che inaugurerà stasera alle 20 al Rossetti l’edizione numero 30 del festival triestino, edizione attraversata dallo spirito di cambiamento e dalla celebrazione della caduta del Muro di Berlino. Non a caso sono battezzati “1989-2019 Wind of change” e “Tales from the Berlin Wall” i percorsi che attraverseranno l’intera manifestazione, facendo da doppio fil rouge fino all’ultima proiezione di venerdì 25. All’ombra del Muro anche il film a seguire, uno dei capolavori più estremi e carnali di Andrzej Zulawski: l’incubo, ricco di metafore, di “Possession” dove, la Anna di Isabelle Adjani intraprende una relazione con un mostro tentacolare, creatura di Carlo Rambaldi. Miglior interpretazione a Cannes per lei, Asteroide d’oro al Festival di Fantascienza di Trieste nell’81 per il film del geniale autore polacco.

Domattina alle 11 invece, a inaugurare le proiezioni al Cinema Ambasciatori, nuova sede festivaliera, sarà il documentario di Erika Rossi “La città che cura”. Dopo aver vinto il premio Solinas per la sceneggiatura due anni fa, vede la luce il film con cui la cineasta torna ad abbracciare le tematiche a lei più care e naturali: quelle relative all’eredità di Franco Basaglia sul nostro territorio nell’esperienza delle microaree. Un modello di salute sul territorio unico in Europa: al contempo però, una realtà che non conosciamo e che Rossi fa scoprire allo spettatore con un documentario che sa anche coinvolgere ed emozionare.

«Il film nasce da un’idea di Gino Pennacchi – racconta la regista –, che aveva girato “Babylon Sisters” a Ponziana venendo a contatto con la realtà della microarea. Avendo io un percorso che parte da Basaglia e passa per “Il viaggio di Marco Cavallo” ci sono andata subito a nozze: nonostante conoscessi le microaree dalla loro nascita non sapevo però, fino a quando non ho iniziato a girare, di cosa si trattasse veramente».

«Sapevo che era un progetto di salute sul territorio che nasceva dal gruppo storico degli eredi di Basaglia – continua Rossi –, Franco Rotelli in testa che ha messo in pratica il concetto della cultura basagliana triestina applicato alla sanità tutta. Ma poi, girando, non solo mi sono innamorata del lavoro che ho visto fare, ma ho ritrovato quello spirito che ho sempre cercato di comunicare: quel mettere sempre al centro la persona e la sua storia, la relazione prima del disagio o della malattia».

«L’aspetto che più m’interessava era raccontare che dietro a questo percorso di sanità pubblica c’è una visione, un’idea e un coinvolgimento degli operatori totale, che mettono in pratica nel loro lavoro quotidiano: un ridare dignità e consapevolezza, un mettere in relazione le persone e creare la comunità, in una lotta alla solitudine e all’esclusione. Un progetto che è anche politico, che rimette al centro la persona “fregandosene” della prestazione, andando a volte a mettere in crisi le regole istituzionali».

Il film alterna una parte più intima e personale e una più “didattica”: si seguono così tre storie di frequentatori della microarea ponzanina, il pianista Plinio, autosegregatosi in casa dopo una vita a suonare sulle navi da crociera, Roberto, alle prese con conseguenze di un ictus combattuto facendo teatro, e Maurizio, dal passato difficile; si assiste poi ai tavoli di discussione tra gli operatori, momento fondamentale per approfondire l’altra metà del servizio. La loro abnegazione, la competenza, lo spirito di mettersi alla pari con chi è in situazioni di disagio non lascia indifferenti. «La specificità di microarea è questo coordinarsi con gli altri servizi, essendo un servizio integrato tra Azienda Sanitaria, Comune di Trieste e Ater: in più, insieme, stimolano la partecipazione della gente alla costruzione di questo microcosmo. Ciò lo rende un modello di integrazione di servizi coordinato da un mandato di governance che non esiste altrove, neanche nei Paesi europei più avanzati. Non è un caso che mentre giravo – conclude Rossi – arrivavano inglesi, sudamericani, molti dal Giappone: tutti per capire i meccanismi di un progetto unico nel mondo». –


 

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