«Vi racconto l’India, dove la casta è un bene»

Finalmente un libro sull'India che fa piazza pulita di luoghi comuni e ovvietà da filosofia new age. A scriverlo è un triestino, Alessandro Cisilin, antropologo e giornalista che sulla società indiana ha conseguito un dottorato a Parigi e pubblicato ricerche per Cambridge University Press e Franco Angeli. Oggi vive a Roma e lavora per Area, oltre a scrivere sul Fatto Quotidiano. Tuttavia la passione per l'antropologia resta, quella più articolata che si riesce a scrivere in un libro. Lo testimonia il suo ultimo "Noi e l'India" (Bonanno Editore, pagg. 147, euro 14,00) che sarà presentato al Caffè San Marco oggi alle 18 da Paolo Pichierri. Un saggio che si legge con la facilità di un romanzo, non per questo meno verticale. Merito di una scrittura brillante, concisa, ironica, ma soprattutto delle esperienze che Cisilin ha vissuto sul campo nei tanti viaggi compiuti per studio. E poi merito di una certa lucidità, va detto, quella di chi riesce a fare tabula rasa dei preconcetti e non teme di infrangere qualche ideale. «Nessun trasporto "esotico" per l'India - dice l'autore - La scelsi per le mie ricerche proprio perché lontana da me».
Un libro che si sostiene proprio sulla "diversità".
«Credo che le più grandi maturazioni si producano nell'incontro con la diversità, specie se davvero remota. Così come d'altra parte "l'antropologia del proprio mondo" è una contraddizione in termini, figlia di un antico equivoco: quello secondo il quale ognuno di noi sarebbe il migliore conoscitore di se stesso. Falso, sono gli estranei a capirci davvero, perché salta subito ai loro occhi quel che abbiamo di diverso, di straordinario, e che invece noi tendiamo a ignorare in quanto connaturato alla nostra quotidianità. Non me ne vogliano, ma i triestini che scrivono di Trieste finiscono spesso per alimentarne i luoghi comuni».
Si potrebbe dire però che similmente ai triestini, anche la spensieratezza indiana sia frutto del disincanto piuttosto che della leggerezza.
«Sono aspetti che vanno assieme. È ostico da digerire, ma la leggiadra spensieratezza che ammiriamo negli indiani è connaturata a un elemento che detestiamo: la gerarchia. Ci si genuflette di continuo, tra gli uomini e verso un pantheon di divinità antropomorfe e animalesche. Ci può sembrare stupido e arretrato, ma la sostanza è una razionale dichiarazione di umiltà, in cui si riconosce la modestia della propria esistenza rispetto ai sogni infiniti di un altrove e all'esperienza del passato, a cui si continua a delegare le proprie scelte fondamentali. Noi ci pensiamo invece primati liberi e sovrani, salvo spesso finire sul lettino di uno psicanalista; che magari, peggio ancora, ci incoraggia ulteriormente a pensarci superuomini».
Il libro è dedicato a Elisabetta Boncompagni e Tomaso Bruno.
«Sono gli italiani dimenticati in India, anche dai media. Il caso dei due marò ha fatto parlare e polemizzare sull'India come mai prima. Quasi nessuna parola invece sulla situazione ancor più drammatica di questi due giovani viaggiatori, condannati all'ergastolo con l'assurda accusa di aver ucciso un altro connazionale, Francesco Montis, morto dopo un malore. A giorni è attesa l'udienza sul ricorso in Corte Suprema, dove si procede per rinvii da oltre un anno. Un silenzio indecente, perché sono italiani anche loro, anche se non avevano la divisa».
Lei destruttura dei luoghi comuni, per esempio mette in luce l'ottica fortemente individualista degli indiani a cui si collegano molte cose che l'immaginario collettivo fraintende.
«È un paradosso. Siamo noi, occidentali, ad aver concepito un'individualità piena, totale, addirittura "a immagine e somiglianza" del divino. In India quel pesante "individuo" non esiste, ma allora non esiste neppure "l'altro"; c'è il vincolo riconosciuto delle appartenenze sociali, ma dentro di esse si può sprigionare la più sfrenata anarchia individuale. La musica lo spiega bene: noi abbiamo inventato l'armonia, ma per conquistarla servono precisi spartiti. La melodia tradizionale indiana è sostanzialmente jazz, solismo puro».
Tra le altre cose è singolare la libertà che deriverebbe da una società decisamente gerarchizzata. La "casta" tuttavia è una categoria presente anche in società apparentemente democratiche.
«Sì, e questo suona ancor più odioso nei viaggi di ritorno da una società gerarchica. Si riapproda nell'immaginifico Occidente della libertà e uguaglianza, e dei relativi concorsi pubblici in cui vincono i figli di. Doppiamente odioso, per l'aggravante dell'ipocrisia».
E di Bollywood che mi dice?
«Fenomeno straordinario, numeri senza pari al mondo. Spiega molto dell'India, ma all'incontrario. A Bollywood si pensa che il cinema debba essere l'allegra sublimazione della realtà, non la sua triste rappresentazione. In fondo, gli antichi templi indù facevano qualcosa di analogo, sbizzarrendosi addirittura nel libertinismo che solo gli dei possono permettersi».
Ricchezza e potere in India sono legati a un'idea di rinuncia. Per noi occidentali un paradosso…
«Anche noi rivendichiamo l'etica del sacrificio, a iniziare da Gesù. Gli indiani vanno però oltre l'ambito morale. Le epopee - e anche molti riti odierni - raccontano di battaglie per il trono alle quali il vincitore alla fine rinuncia. L'India è la terra dei Maharaja e oggi di parecchi miliardari, ma il vero potere rimane nelle mani di chi sta nell'ombra».
Anche gli odierni conflitti tra musulmani e indù sono frutto di una logica occidentale. Pare quasi che l'Occidente teorizzi il pluralismo proprio perché non si riesce a praticarlo.
«Sì, quei conflitti sono largamente un fenomeno postcoloniale. Il fatto è che l'Occidente, in fondo, non vuole affatto il pluralismo bensì il suo contrario, soprattutto con la nascita degli Stati-nazione, e la quotidiana enfasi bi-partisan al concetto dei "valori comuni" ai quali dovremmo tutti omologarci, ora perfino in ambito politico-economico. Noi abbiamo perciò inventato le "maggioranze" e le "minoranze", mentre nell'India tradizionale il problema non sussiste, per la banale ragione che l'identità di ciascuno non è che la sua diversità».
Da cosa è stato attratto di più e da cosa respinto quando ha iniziato a conoscere davvero quella terra?
«La stessa cosa, e vale probabilmente per tutti i turisti, anche se perlopiù inconscia e inconfessata: il fatto di scoprirsi innamorati di un mondo che ideologicamente si detesta».
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