Willy Dias, un po’ Bovary, un po’ D’Annunzio in una Trieste stile Roma bizantina

TRIESTE Tra i romanzi meno noti scritti a Trieste nell’ultimo decennio dell’Ottocento – è la decade di Una vita e Senilità, l’ignorato esordio di Italo Svevo – va certo annoverato il “Maria Lamberti”, 1895, di Fortuna Morpurgo, alias Willy Dias. Una scrittrice di grande talento e animata da forte volontà di riuscire, cui il successo letterario arride già in occasione di questo primo romanzo, pubblicato a 23 anni. Anche lei avrebbe potuto affermare, come Matilde Serao cui dedica un volume di racconti: “questo è il mio mestiere, questo è il mio destino: scrivere fino alla morte”. Nulla però lascia presentire, nella vicenda tragica di Maria Lamberti, la protagonista del suo esordio narrativo, la strada che la scrittrice imboccherà nel Dopoguerra, lasciandosi scivolare sui bassopiani “rosa” di una scrittura prevedibile e rassicurante.
Nel Maria Lamberti protagonista e scenografia si collocano a metà strada tra un romanticismo di maniera e i preziosismi e le ambivalenze del decadentismo. Nume tutelare dell’operazione è Gabriele D’Annunzio, di cui erano usciti, tra il 1889 e il 1894, i tre romanzi del “ciclo della rosa”; fra di essi è soprattutto Il piacere che, per esplicita confessione (è il libro che più ha colpito Maria Lamberti, divoratrice, come Emma Bovary, di opere di narrativa), Willy Dias prende come modello.
Più sul piano tematico, come c’era da aspettarsi, che su quello della scrittura dove il Pescarese è ovviamente inarrivabile (ancorché certi flebili echi lo richiamino direttamente; “Andrea seguitò a discendere lentamente le scale che conducevano all'ultima terrazza”, nel Piacere; “Maria discendeva lentamente la via dei Santi Martiri”, in Maria Lamberti, ecc.): ecco dunque gli ambienti, le atmosfere, le eleganze di vita, le pose e i costumi di una società opulenta e dissipata, dedita, appunto, al “piacere”. Con un gioco di prestigio che fa sorridere il lettore d’oggi ma forse poteva ammaliare quello del tardo Ottocento, Trieste è trasformata in una copia della Roma bizantina descritta dal Duca Minimo (uno degli pseudonimi del D’Annunzio giornalista): giovani elegantissimi e raffinati si danno a una vita galante di godimenti e amori, fanno a gara per ricercatezza e snobismo, coltivano la passione per gli oggetti dell’arte che collezionano nelle splendide dimore.
I giochi della seduzione si intrecciano e si sciolgono nel susseguirsi di eventi mondani in cui una società patrizia dà spettacolo di se stessa (con un interessante risvolto documentario che rimanda alla Trieste fin-de-siècle: la sfilata del carnevale sul Corso, il defilé di carrozze al Passeggio Sant’Andrea, la rappresentazione di Spettri con Ermete Zacconi, ecc.). Fioriscono i flirt e gli adulteri, ma in un’atmosfera leggera di gioco mondano dove non c’è spazio per scenate o duelli. Eppure qualcosa già annuncia la scrittrice attenta al ruolo della donna nella società moderna che Dias è destinata a divenire, pur nelle pieghe morbide e convenzionali del genere rosa, la strada che imboccherà nel ventennio littorio; così Maria, riflettendo amaramente sul destino di fanciulle destinate a divenire quel ninnolo grazioso che ingentilisce la vita dell’uomo, e nulla più: “se Ugo non la sposava”, riflette preparandosi al sì che condizionerà la sua esistenza, “che cosa avrebbe fatto lei e la mamma? Lavorare? Ma aveva ricevuto un’educazione da signorina, cinguettava in più lingue, suonava due istrumenti, acquerellava con garbo, ricamava. Ma queste cose le sapeva superficialmente, e mentre tante maestre abilitate non guadagnano il pane, che avrebbe potuto guadagnare lei?”. Il matrimonio dunque come scelta necessaria e, suo naturale complemento bovaristico, il sogno della passione travolgente. Che presto ha un nome, Giorgio Vargas, un artista insoddisfatto e incompleto che inganna la noia con le conquiste femminili.
Ora, se chi ha familiarità con la Trieste imperial-regia, potrà ironizzare sul suo studio d’artista collocato in via dei Santi Martiri a imitazione (in scala minore, va da sé) del “buon retiro” di Andrea Sperelli a Palazzo Zuccari in via Sistina, nessuno potrà negare a Willy Dias una seduttiva capacità affabulatoria. In quello studio Maria Lamberti, che ha scelto il matrimonio con un uomo tanto per bene quanto noioso, ed è incapace di comporre il conflitto tra reale e ideale, cadrà fra le braccia di Giorgio, uno Sperelli formato San Giusto, dal temperamento di sentimentale deluso, tanto sensuale quanto volubile e che calca, difensivamente, la maschera del cinico. La finzione di indifferenza con cui gli amanti si feriscono, ingannando se stessi mentre in effetti vivono il “grande amore”, toglie a Maria, da sempre incline al ripiegamento malinconico, il gusto della vita. Personaggio in cui Dias rappresenta quella “malattia della volontà” su cui tanto inchiostro hanno speso gli scrittori della generazione di Bourget e di D’Annunzio, essa, scoperto il tradimento dell’amante, precipita in un abisso di abbattimento che la spinge al gesto irrimediabile.
È la morte come porto di pace, secondo la suggestione filosofica di Schopenhauer così cara all’ultimo Ottocento (si ricordi Una vita e Il trionfo della morte): “Le ore battevano lentamente, monotonamente, le candele quasi consumate finivano di ardere, sul viso della morta, una grande pace che era anche una grande indifferenza, si andava stendendo e delle ombre violacee si disegnavano nel suo pallore”. —
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