Zerocalcare: «Racconto la lotta curda all’Is con disegni partigiani»

“Kobane calling”, edito da Bao, rinnova il successo dell’autore di Rebibbia che fa incetta di premi
Di Federica Manzon

di FEDERICA MANZON

Nell'autunno del 2011 Michele Rech è ancora un disegnatore che collabora con riviste e quotidiani, realizza locandine per concerti e dischi punk rock e sta per aprire un blog - zerocalcare.it - in cui pubblicherà i suoi racconti a fumetti. Il tempo è ancora fermo. Ma è da questo momento che tutto accelera. In ottobre, usando il nickname Zerocalcare, pubblica il primo libro a fumetti "La profezia dell'armadillo" e ottiene un successo enorme. Arrivano i premi e i riconoscimenti, e di pubblicazione in pubblicazione il numero dei suoi lettori diventa vertiginoso. Nel 2014 esce l’autobiografico "Dimentica il mio nome", che arriva secondo al Premio Strega Giovani e viene nominato libro dell'anno del programma radiofonico “Fahrenheit”.

Oggi il disegnatore di Rebibbia è, quasi suo malgrado, una star: cresce, e non solo nelle vendite. Lo troviamo in questi giorni in libreria con un'impresa difficile: un reportage (o sarebbe meglio dire una storia) a fumetti sul confine più instabile e pericoloso nella mappa internazionale, quello turco-siriano. Con "Kobane calling" (Bao Publishing, pagg. 270, euro 20) Zerocalcare si spinge in Rojava, la regione simbolo della resistenza curda contro le forze dell'Is.

«Come cazzo ci sono finito qua?», si chiede nelle prime pagine. «Mi ricordo una riunione all'università convocata da collettivi, centri sociali romani e esponenti della comunità curda in cui ci guardavamo in faccia e si vedeva che tutti avevamo moltissima voglia di partire, di stare lì dove stavano succedendo qualcosa di epocale - spiega oggi Michele “Zerocalcare” Rech -. Però era una di quelle cose che magari poi scemano non appena uno fa i conti con la realtà. E invece un mese dopo stavamo lì».

I precedenti lavori partivano dal suo mondo interiore, qui invece si è catapultato all'esterno e nell'area più difficile...

«È stato molto difficile trovare un equilibrio nel raccontare: non potevo dare nulla per scontato. Nozioni che magari a me suonavano familiari, perché seguo la causa curda da molti anni, andavano rispiegate in modo che anche il lettore sedicenne, completamente a digiuno di storia e geografia, potesse entrare nella storia, senza sentirsi tagliato fuori. Il rischio era quello di fare un "pippone" noiosissimo, quindi tutti i miei sforzi si sono concentrati lì».

Come si evitano semplificazioni o partigianerie?

«Le semplificazioni ho cercato di evitarle, ma sulle partigianerie ho dichiarato da subito di non aver nessun intento di imparzialità. Sono andato lì per sostenere una parte, non per fare "informazione", e nel racconto il mio schieramento è molto evidente. Uso i personaggi per dare voce alle mie contraddizioni, ai miei dubbi. Ad esempio, George Pig mi serve perché è portatore di quelle domande e obiezioni che sono state in un angolo del mio cervello durante tutto il viaggio, la parte più cinica e scettica, con cui mi sono confrontato continuamente. Alla fine ho solo cercato di restituire questo mio dialogo interiore».

Il suo racconto ha una posizione etica molto forte, eppure non è mai ideologico. È un tratto della sua generazione?

«Sono sempre in difficoltà nel rispondere alle domande generazionali, ho una specie di spirito di corpo che mi porta a "fare quadrato" e difendere la mia generazione da qualsiasi critica. In generale credo che alcune ideologie del '900 non abbiano più molta presa, ma ce ne sono altre che le hanno sostituite e che non chiamiamo più "ideologie", ma che in sostanza sono altrettanto dogmatiche. Per esempio nel dibattito pubblico sul decoro e sul degrado, o sulla legalità/sicurezza, secondo me c'è moltissima ideologia, anche se non si parla di fascismo o comunismo. Io pure ho una mia bussola di valori molto forte, che cerco di dichiarare sempre per non ingannare nessuno, ma al tempo stesso non ho nessuna vocazione "evangelizzatrice". Non voglio, né mi sento in grado, di insegnare niente a nessuno».

In Rojava ha trovato una comunità che vive secondo un federalismo democratico molto avanzato, in una rispettosa convivenza etnica e religiosa. Se lo aspettava?

«Mi ha sorpreso il ruolo delle donne. Siamo portati a pensare che l'Occidente abbia tutto da insegnare in materia di libertà e diritti femminili, invece qui ho incontrato donne come Nasrin, la comandante dell'Unità di protezione popolare delle donne curde, o le guerrigliere del Pkk, e ho capito che la loro libertà è autentica, il frutto di quarant'anni di lotte e formazione che le hanno rese davvero parte attiva e partecipe della società».

Le donne curde difendono il proprio popolo in prima linea...

«Il loro modo di combattere è estremamente coraggioso e al tempo stesso "emotivo". Sono capaci di addestramenti duri, sacrifici e grande fermezza. Si dedicano alla guerra con tutte loro stesse, sapendo che forse non rivedranno più la propria famiglia, che non potranno costruirsi una vita. Ma l'ideale di libertà per cui si battono dà loro una forza impressionante. La loro partecipazione alla guerra aggiunge coraggio e umanità, perché sono loro a farsi carico di tutto il dolore dei morti, riuscendo comunque a guardare avanti».

A un certo punto del viaggio capisce perché è andato a Kobane. Perché lì c'è il cuore...

«Tutto quello che mi hanno insegnate sul bene o sul male, sulle scelte e le responsabilità, sul sacrificio e sulla generosità, tutto questo si sta adesso scontrando a Kobane. Non è solo uno scontro contro il "male assoluto" dell'Isis, è una battaglia per l'umanità, per la convivenza tra le culture, per l'uguaglianza. In un certo senso è quello che il mondo auspica da sempre. Tutte le cose che ci fanno battere il cuore si stanno battendo per affermare la propria possibilità di esistere in Rojava».

L'autore e Mammuth si interrogano spesso sull'appartenenza. Ma cosa vuol dire appartenere a un luogo?

«Suppongo che dipenda da individuo a individuo, per me l'appartenenza fisica è una cosa viscerale, io se mi allontano dal mio quartiere sto male fisicamente. Ma il senso di questo libro sta anche nella scoperta di altre appartenenze altrettanto importanti, che non si sostituiscono a quella originaria ma si sommano».

A Kobane ha fatto esperienza di un confine come non siamo abituati a pensarlo: mobile, aleatorio. Le ha fatto paura?

«Sicuramente la cosa che fa più paura al primo impatto è il fatto che in Siria, con l'Is, non c'è neanche un confine vero e proprio: c'è un fronte, che può variare a seconda dell'avanzamento militare di una forza o dell'altra. E questa cosa mi terrorizzava, in qualche modo la certezza di un confine stabile come quello turco mi dava sicurezza. In realtà, sul campo ci si accorge di come anche queste siano semplificazioni: quello che è un confine armato e invalicabile per i profughi diventa un colabrodo per gli jihadisti. L'apparente stabilità non era quindi di conforto, semmai segnava l'esclusione».

Il suo libro è in cima alle classifiche in un’Italia che sembra leggere solo romanzi erotici o storie di adolescenti innamorati: questo ci dice qualcosa sul mondo dei lettori troppo facilmente etichettato come "debole"?

«Io continuo a pensare che leggere fumetti sia più impegnativo che leggere la letteratura solo scritta. Richiede un grande sforzo di sintesi tra immagine e testo e non ha nulla di facile, quindi a me personalmente conforta molto quando leggo di un fumetto che sfonda la nicchia degli appassionati puri».

Una dei suoi protagonisti dice che da Kobane si esce o vincitori o morti. Lei come è uscito da Kobane?

«Noi non siamo combattenti, abbiamo fatto una scelta di intervento diversa. Di sicuro, però, tutti noi che siamo stati in quel territorio non consideriamo quell'esperienza finita quando abbiamo ripreso l'aereo per tornare a Roma, come fosse la fine delle vacanze. Ognuno con le sue forme cerchiamo di dare continuità a quel supporto. Kobane è ormai parte di noi».

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