A casa Sterling, sotto l’arco di Wembley dove la Giamaica diventa Inghilterra

Nelle strade dietro lo stadio che hanno visto crescere l’attaccante. Il quartiere caraibico è il centro dell’orgoglio del Paese 
Giulia Zonca

il reportage



INVIATA A LONDRA

Ci vogliono dodici minuti a piedi da Neeld Crescent numero 13, dove Raheem Sterling è cresciuto, a Wembley dove l’attaccante inglese è diventato grande. Puoi contare i passi e le case, che cambiano subito, appeno svoltato l’angolo della strada che porta fuori dallo stadio. Si passa dai palazzi di vetro del quartiere cresciuto insieme al nuovo impianto a una Londra che ricorda un film Anni Ottanta. Mattoni rossi, immigrazione a strati, ragazzini con le divise rosse e verdi delle scuole locali, zaino e oggi, all’improvviso, tante bandiere dell’Inghilterra legate al collo. Tutto il Paese si è svegliato con il patriottismo in testa, ma qui, a Brent, quartiere dove la comunità caraibica si è sempre trovata a casa è un mattino diverso.

È la prima volta che le loro radici si mescolano davvero ai passaporti, un’identità sorprendente. Sterling è cresciuto giocando con i ragazzi del quartiere, per poco, subito intercettato da una squadra importante, ci ha messo giusto un paio di anni a trovare allenamenti veri però è partito dall’incrocio in cui l’arcobaleno è l’arco di Wembley. E lì dove nasce, dove lui l’ha visto costruire, c’è il pozzo dei desideri. Il numero 13 ha il cartello vendesi, i vicini appollaiati sul muretto a fianco se la ridono davanti alla processione: «C’è stranamente traffico in questa strada deserta. Il cartello? Si vede che la proprietà acquista valore adesso, veda un po’ se c’è scritto “Qui ha abitato il campione d’Europa”». Partono insulti scaramantici. Sull’avviso non c’è scritto nulla, ma sul braccio di Sterling sì, c’è il tatuaggio con un bambino che indossa la numero dieci della nazionale, ha il pallone sotto braccio, sta davanti allo stadio. Se si sovrappone l’arco alla prospettiva che si ha dal suo vecchio incrocio, i due profili combaciano perfettamente. Il punto di partenza e quello di arrivo coincidono: comunque vada la finale, Sterling ha riportato uno stadio costato miliardi dentro il cuore degli inglesi e ha legato un quartiere dimenticato al centro pulsante di Londra. Ha obbligato l’Inghilterra a riconsiderare ogni sua parola.

Se i Tre leoni si inginocchiano e di conseguenza lo farà anche l’Italia, è un po’ perché c’è lui. Sterling ha sempre parlato del razzismo per quello che è, non uno scandalo di pochi, ma uno sguardo di tanti e questa sua visione schietta e disincantata è costata critiche e incomprensioni. Ha dato colpe ai media, ai commentatori delle partite, al sistema, alla politica. L’Inghilterra si è sentita giudicata e oggi ringrazia il ragazzo smaliziato che contro la Danimarca si è portato a casa un rigore nel momento del bisogno, la punta vivace che ha segnato contro la Croazia e contro la Repubblica Ceca e contro la Germania.

Il bambino che bussava dai signori Brown per recuperare la palla finita oltre la staccionata: «Io me lo ricordo bene». La via in realtà cambia abitanti di continuo, i nuovi inquilini di casa Sterling hanno rinnovato l’appartamento che prima aveva tre camere e ora ne ha cinque. Di fronte c’è la Union Jack e da queste parti non è proprio quotidianità vederla sventolare. Stiamo tra i murales del rapper nigeriano Olamide e le scritte «post no bill» (posta non bollette) stampate a stencil sui portoni. Stiamo in un pezzo di Londra giamaicana dove Nadine Sterling si è trasferita per dare ai figli un futuro diverso dal caos che li risucchiava a Kingston. Non ha scelto un posto qualsiasi. Qui ancora ci sono locali con tracce dello slogan «capitale reggae», nome acquisito quando la casa discografica Island Records, quella di Marley, ha aperto la sede in queste strade, a Kilburn. Il cantante ha vissuto a Neasden all’inizio degli anni Settanta, a sei minuti di auto da casa Sterling.

È sempre stato un posto di scambio, a tratti di frontiera. Il giovanissimo Sterling sapeva di essere valutato per il suo indirizzo, ha sempre avuto la sensazione di essere guardato con sufficienza e lo ha detto senza paura, irritando la nuova patria. Ora hanno fatto pace: lui si sa amato e gli inglesi hanno iniziato a capire da dove viene, a condividerne il viaggio. A 10 anni stava già nelle giovanili del Qpr, zona Heathrow, a un’ora e mezza e tre autobus (18, 192 e 140) dalla casa con vista arco. A 14 anni si è trasferito e poco dopo poteva già mantenere la famiglia altrove. Sul muro della sua ex scuola, che oggi si chiama Ark Academy, c’è scritto. «Dare for greatness» (osa per la grandezza) e non c’era quando la frequentava lui. C’è perché Sterling è passato di lì, con la sua storia che può diventare pure un pezzo di storia inglese. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo