Bettiol: «Sui muri del Giro di Fiandre ho capito chi sono Mi mancano tanto»

La classica del ciclismo era prevista per oggi Il corridore italiano l’aveva vinta nel 2019 

L’intervista



Oggi si doveva correre il Giro delle Fiandre, la classica dei muri in pavé per la quale i fiamminghi accorrono sulle strade, tra la vigilia con i sopralluoghi dei corridori e la corsa vera e propria, pagando anche 400 euro per un biglietto in tribuna vip o più di 1000 per un posto sulle auto dell'organizzazione in mezzo al gruppo. Il coronavirus quest’anno ha bloccato un «monumento» che neanche la Seconda Guerra Mondiale aveva interrotto, spegnendo anche i sogni di Alberto Bettiol, vincitore per distacco nel 2019.

Bettiol, le manca il Giro delle Fiandre?

«Da matti, era la corsa dei miei sogni. La prima volta, nel 2016, mi ero ritirato tornando a casa con l’amaro in bocca. Ma avevo 22 anni, poi sono riuscito a rifarmi».

Perché la piace tanto la Ronde van Vlaanderen?

«Mi ricordo la vittoria di Bartoli nel 1996, anche se ero piccolino, e Tafi nel 2002. È una festa, pedali nella Storia e ti senti protagonisti di un evento atteso dalla gente per un anno. È speciale. Sono fortunato ad averla vinta, e in quel modo».

Lei scattò sul Vecchio Kwaremont, a 18 km dal traguardo: pareva un azzardo.

«Ero dimagrito di 3 kg e stavo bene, molti big si marcavano e sapevo di potermi giocare una carta anche grazie ai miei compagni di squadra. Sono scattato, poi Langeveld e Vanmarcke via radio mi urlavano continuamente di dare tutto, di non voltarmi, che dietro erano tutti cotti. Ho tenuto anche sul Paterberg e sono arrivato da solo. Allora ho capito davvero che cos'è il Fiandre per i belgi».

L’organizzatore Vandenhaute alla vigilia aveva detto che «un outsider come Bettiol non avrebbe mai vinto». Si è vendicato?

«No, nessuna vendetta. È stata la mia prima vittoria da professionista, al via c’erano tanti corridori più accreditati. Anch’io ho capito chi sono solo dopo il Fiandre 2019».

Prima non lo sapeva?

«Non ne ero convinto nemmeno io. Da bambino non pensavo di poter diventare un buon corridore. Mia madre aveva paura che mi facessi male e preferiva che studiassi. A scuola andavo benino e pensavo di fare l’Accademia Aeronautica perché mi piace volare».

Poi ha scelto la bicicletta.

«Dopo due sole stagioni da dilettante a 22 anni passai professionista e affrontai subito le grandi corse. Forse è per questo che prima del Fiandre non avevo mai vinto. Dopo due gravi cadute in pochi mesi pensai anche di lasciare tutto. Ma tenni duro».

Il Fiandre l’ha cambiata?

«Sì. Subito dopo mi sono sentito scombussolato, non ero pronto per una vittoria del genere, accusavo le aspettative mie e di chi mi circondava. Io in bici voglio essere felice, ma non lo ero. Abituato ad andare ai 30 all’ora, improvvisamente dovevo andare ai 100. C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine ho capito. Non bastano le gambe, ci vuole sempre la testa».

Ha fatto molti sacrifici?

«Alfredo Martini, un maestro, diceva che sono i minatori a fare sacrifici, ai corridori basta qualche rinuncia. Io aggiungo che ci vuole volontà, costanza, onestà e silenzio. Con gli anni la bici ha modellato il mio fisico, la schiena si è incurvata sul manubrio. Ora anche la testa e la mente sono state forgiate».

Cosa dobbiamo attenderci allora in futuro da Bettiol?

«Dopo questa pandemia sarò pronto per nuovi exploit e per altri 10 anni da protagonista, poi vorrei restare nel ciclismo, la mia vita. Ho la fortuna che il mio lavoro è anche la mia passione, mentre il mio babbo deve chiedere le ferie dalla fabbrica per venirmi a vedere e poi non può più farle con la mamma. Io sono un privilegiato, me l’ha insegnato il Fiandre». —



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