Mio papà Giacinto un uomo nato per fare sport
Il 4 settembre 2006 ci lasciava prematuramente Giacinto Facchetti, capitano dell’Inter e della Nazionale, uno dei figli migliori del nostro calcio. A undici anni dalla scomparsa, abbiamo chiesto al...
Il 4 settembre 2006 ci lasciava prematuramente Giacinto Facchetti, capitano dell’Inter e della Nazionale, uno dei figli migliori del nostro calcio. A undici anni dalla scomparsa, abbiamo chiesto al figlio Gianfelice di ricordarlo per noi.
di GIANFELICE FACCHETTI
Poche notti fa ho visto in tv una vecchia puntata della “Domenica Sportiva”, in cui papà era ospite insieme con Sandro Mazzola e Alberto Sordi. A fine puntata, il conduttore chiedeva a Giacinto di cimentarsi con una mazza da golf in studio. Dopo avergli spiegato come tenere l’impugnatura e dopo avergli consegnato una pallina, lasciava che il capitano della Nazionale facesse i suoi tentativi. Il primo colpo andava a vuoto e a riderci sopra era proprio lui che chiedeva una seconda possibilità: tiro secco, pallina colpita piena che si alzava e, se ci fosse stato un prato, avrebbe camminato fino alla buca.
«Quante vite da atleta in altre discipline, in altri sport avrebbe potuto vivere papà? Ci siamo persi qualcosa? Probabile!», a questo ho pensato. Da ragazzo prima di sbocciare nel calcio, aveva raccolto ottimi risultati in atletica sugli 80 metri piani con tempi non comuni, il suo professore di ginnastica da lì avrebbe potuto creare un cavallo di razza perfetto per il galoppo. In casa Facchetti prevalse il senso pratico di nonno Felice che per cinque bocche da sfamare con uno stipendio da ferroviere, pensò che il “balù” andasse meglio. Ho trovato vecchi scatti in cui vestito da cestista Giacinto sfida i giocatori della Simmenthal Milano in una partita amichevole di basket. È immortalato con stile adeguato mentre salta sotto canestro insieme con Massimo Masini ed è difficile credere che quell’incontro tra giganti non sia stato vero.
Che fosse in uno stadio, su una pista di atletica o sul parquet di un palazzetto, era in armonia con ciò che stava facendo, sembrava fosse nato per lo sport qualunque esso fosse e in ogni occasione che gli si presentasse davanti, si dedicava con lo spirito puro del principiante, quello di chi non si stanca mai di imparare e migliorarsi. Anche con il tennis era andata così! Dopo aver smesso di giocare a calcio, aveva cominciato daccapo con la racchetta e continuò a giocarlo in ogni stagione dell’anno con curiosità e passione fino a pochi mesi dall’addio. In quel viaggio ha avuto compagni e rivali straordinari, amici ostinati come lui per sfide e rivincite da perdere il conto, volti e voci spesso familiari da una parte all’altra della rete. La giornata di vacanza perfetta contemplava una partita di bocce, una a scopa d’assi e tre set di tennis. Sulla terra rossa c’erano alcuni tornei a cui non avrebbe mai rinunciato, semplici appuntamenti con il tempo a cui era affezionato perché sapevano di festa, attimi in cui si congedava per una parentesi sudata dai mille impegni della sua quotidianità, ancora libero di giocare e lasciare sul fondo oltre la riga le tante responsabilità che lo riguardavano.
Fu proprio la voglia di correre sulla terra rossa senza un fastidio al ginocchio, a convincerlo a operarsi: scoprì di avere a che fare con qualcosa di grande perché trovò la pallina più insidiosa di sempre. Della sua ultima estate ricordo i pomeriggi al tennis di Selvino, “buen retiro” di agosto, giocando a carte con la vita, un occhio a denari, coppe e bastoni, l’altro verso i campi pochi metri più in là, sognando di presentarsi al servizio il prima possibile, elegante e pettinato come sempre.
Non è solo un’idea forte di calcio quella che ci ha lasciato e di cui è stato testimone fortunato insieme con la sua generazione, papà ci ha messo davanti agli occhi anche un’idea possente di sport visto e vissuto fino in fondo come una delle esperienze più belle e emozionanti che la nostra esperienza terrena possa regalarci. Guardava tutto con stupore e l’ammirazione di chi conosce la fatica per esserci a costo di sacrifici e allenamenti, soffriva e gioiva per la nostra bandiera a un’Olimpiade di atletica o un Mondiale di calcio, si arrabbiava se qualcuno di noi figli si fosse concesso a qualche commento banale da bar. Senza dirlo a parole, rintracciava in tutto lo sport, calcio compreso, qualcosa di sacro, desiderava che anche noi fossimo educati a questo: «Annusa i fili d’erba, certi giorni profumano di cielo!».
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