Balcani alluvionati. «Allarmi tardivi». In Serbia monta la rabbia

Dopo il disastro i media rilanciano le accuse dei social. Il sindaco di Obrenovac: «Non sono colpevole»
epa04219417 People wait in line to get drinkable water in Obrenovac, Serbia, 22 May 2014. A state of emergency has been declared in Serbia due to severe floods caused by rain falling for more than 48 hours. Thousands of people in Bosnia, Serbia and Croatia were evacuated as rising floodwaters swallowed homes and farmland after last week's record rains. EPA/KOCA SULEJMANOVIC
epa04219417 People wait in line to get drinkable water in Obrenovac, Serbia, 22 May 2014. A state of emergency has been declared in Serbia due to severe floods caused by rain falling for more than 48 hours. Thousands of people in Bosnia, Serbia and Croatia were evacuated as rising floodwaters swallowed homes and farmland after last week's record rains. EPA/KOCA SULEJMANOVIC

BELGRADO. Il bilancio parziale delle vittime per le alluvioni in Serbia, 27 - la metà nella sola Obrenovac - poteva essere meno drammatico. Non è vero, la catastrofe era inevitabile. Sono queste le due campane, la prima è la più assordante, che si ascoltano nella Serbia ancora traumatizzata dall’epocale disastro delle inondazioni. Serbia dove fioriscono i dubbi sull’efficacia della gestione dell’emergenza in particolare nella città di Obrenovac, la più colpita dal disastro, fino a pochi giorni fa completamente sommersa dall’acqua, città che rimarrà nella memoria anche per la coraggiosa e incessante opera dei soccorritori e dei volontari.

Ma ci sarebbe un’altra faccia della medaglia, assai oscura. Continuano a scoprirla le testimonianze che circolano da giorni sui social network, ora riprese con insistenza da parte dei media locali. Già giovedì scorso, prima del disastro di venerdì, «sapevano cosa sarebbe successo, lo sapevano otto ore prima e non hanno dato l’ordine di evacuazione alla popolazione», ha scritto Ivana Lalovic, di Obrenovac, sul suo profilo Facebook. Prima dell’esondazione «in città c’erano solo quattro piccole pompe e zero sacchi di sabbia», «se ci fosse stato un allarme tempestivo» prima che «andasse via la luce e arrivasse una grande quantità d’acqua», se fossero state organizzate squadre per la difesa degli argini «si sarebbero salvate vite umane», ha scritto Aleksandar Sindjelic. Messaggi, condivisi da migliaia di persone, che collimano con altre testimonianze che puntano il dito contro il numero uno della municipalità, Miroslav Cuckovic, accusato da più parti di non aver ascoltato gli avvisi degli esperti, come quelli emessi già il 13 maggio dall’Istituto idrometeorologico serbo.

La cronologia degli eventi sembra confermarlo. Prima l’allarme rosso dei meteorologi, poi il 15 maggio, verso le dieci di sera, i primi segnali chiari dell’incombente minaccia Kolubara. Subito dopo, l’appello a Cuckovic da parte di Vojin Nestorovic, manager alla centrale elettrica Nikola Tesla, di suonare le sirene per l’evacuazione della popolazione. Sirene che però sono state azionate solo dopo il primo “tsunami”, all’alba del 16, tre giorni dopo i primi avvisi di pericolo, quando le vie di fuga erano ormai precluse. Ma Cuckovic - che ieri è apparso sulla copertina del quotidiano Kurir, titolo «Io non sono colpevole» - potrebbe essere solo l’ultima pedina di una catena di comando che ha fallito. «Non ho avuto informazioni» dalla società pubblica Beogradvode, uno degli anelli della catena, «che la situazione era allarmante», ha spiegato Cuckovic, ricordando poi che già giovedì alcune aree erano state sottoposte a evacuazione, ma la gente si sarebbe rifiutata di abbandonare le case. Parole, oltre a quelle pronunciate davanti alla tv B92 - «non è vero» che la città «è stata sacrificata per salvare Belgrado» -, che alimentano ancora di più la rabbia, le polemiche, i dubbi.

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