Macedonia, in fila per il pass che vale 72 ore di viaggio

Fuori dal centro di accoglienza di Gevgelija gli abitanti della zona vendono cibo e acqua

TABANOVCE (MACEDONIA) Un sentiero di terra battuta, tracciato nel corso dei mesi da migliaia e migliaia di passi, separa la Grecia dalla Macedonia, il Paese dove dall’inizio dell’anno gli arrivi da Atene sono stati oltre 260mila e dove nell’arco di 24 ore arrivano anche 8.500 profughi.

Siamo nella “buffer zone”, la terra di nessuno arroventata dal sole o lavata dalla pioggia in cui si aspetta, per ore e senza ripari, prima di poter superare il cancello di ferro che marca l’inizio del centro di accoglienza di Gevgelija. È mattina e la fila si snoda già per decine di metri mentre da Atene gli autobus continuano ad arrivare a pieno regime. Su entrambi i lati della coda, qualche abitante della zona è venuto a caccia di affari: banane a due euro al chilo, bottiglie d’acqua a un euro l’una, succhi di frutta e altro.

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Nell'infografica realizzata da Centimetri la situazione nella zona di confine tra Ungheria, Croazia e Serbia. ANSA/CENTIMETRI

Bisogna tener duro, perché all’interno del campo tutto sarà gratuito. Tra le tende allestite dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (l’Unhcr) i volontari infatti distribuiscono da bere e da mangiare, mentre i medici della Croce Rossa assicurano 24 ore su 24 un primo soccorso ai nuovi arrivati.

Di fronte allo stand colmo di garze, spray e medicine, un uomo ne sta seduto all’ombra. Ha 28 anni e viene da Al- Raqqa, in Siria, una città ormai considerata come il quartier generale dell’Is. «Sono un pediatra», racconta questo giovane che preferisce rivelare solo il suo cognome (perché il suo nome, dice, è molto raro): al-Houssein. «Ho lavorato per tre anni sotto le bombe del regime di Assad - racconta - Ogni giorno gli aerei lanciavano sulla città dei “barili bomba”, riempiti di esplosivo e che scoppiavano al contatto col suolo. Si tratta di un’arma indiretta che colpisce senza distinzioni e distrugge le abitazioni».

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Nell'infografica realizzata da Centimetri la situazione nella zona di confine tra Ungheria, Croazia e Serbia. ANSA/CENTIMETRI

In viaggio da due settimane, assieme a un gruppo di amici, al-Houssein spera di arrivare presto in Germania, ma ammette di non aver più molti soldi. Sull’autobus che li ha trasportati da Atene, l’autista dopo avere chiesto loro 50 euro a testa ha preteso un supplemento di 40 euro perché «non sapeva se trasportarci fino alla frontiera fosse legale o meno». Nel campo di Gevgelija ci resterà per qualche ora al massimo, il tempo di ottenere il lasciapassare di Skopje che permette di attraversare la Macedonia in 72 ore.

Una volta in possesso dei nuovi documenti - stampati non più in greco ma in cirillico - i profughi sono nuovamente sulla strada. La tappa successiva è Tabanovce, l’ultima cittadina macedone prima della frontiera serba, a meno di 200 chilometri di distanza. In autobus ci si impiega poco più di due ore, ma tutti i mezzi sono presi d’assalto. «George!», grida qualcuno dal finestrino appena il nostro bus si mette in moto. Il conducente si ferma e George sale zoppicando. Una volta a bordo ringrazia l’autista che annuisce col capo, poi si siede a riprendere fiato. «Ho perso una gamba durante le guerra civile libanese», spiega prima di raggiungere il suo amico in fondo al corridoio.

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Sul sedile a fianco, Alaa sta scorrendo le foto sul suo telefonino, per raccontare un po’ la sua vita a Damasco. Il fratello e la sorella, più piccoli, sono rimasti con i genitori a al-Midan, uno dei quartieri della capitale siriana. «Cosa fanno? Niente, la casa è crollata per metà. Forse si sposteranno da alcuni parenti», dice guardando le immagini sullo smartphone. Poco dopo s’improvvisa professore di arabo, spiegando su un foglio come si usano i verbi al presente. «Safara vuol dire viaggiare», e via a coniugarlo al singolare, al duale e al plurale. Il corso-lampo di lingua non è ancora finito che già l’autobus si ferma vicino a una linea ferroviaria. «La Serbia è da quella parte, sempre dritto», indica il conducente con la mano.

Si scende e ci si mette in marcia, tra saliscendi di colline e alberi solitari. A metà strada, poco prima di attraversare l’invisibile frontiera, si incrocia un accampamento dell’Ong macedone Legis, che distribuisce cibo e vestiti. La sosta dura un attimo, poi si riparte. Come in altri passaggi di confine, lungo questa rotta dei Balcani, si cammina senza chiedersi se la strada è quella giusta o meno. E si ha l’impressione che il gruppo, nel suo insieme, sappia bene dove andare, come se avesse una coscienza propria.

Attraversato un piccolo rivolo d’acqua, ecco che i primi agenti serbi appaiono oltre l’ultima curva. Se ne stanno in piedi su un’altura e sorvegliano il flusso con un cannocchiale, immobili. Nessuno parla più e si continua a testa bassa, fino a un posto di blocco improvvisato. Con un piccolo scanner aeroportuale i poliziotti controllano gli zaini di chi arriva. Ci sono anche Unhcr e Croce Rossa e l’atmosfera pare essere distesa. Non però tra i rifugiati, che non sanno bene cosa aspettarsi.

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