Scampi, alici e seppie stanno scomparendo dall'Adriatico

La pesca intensiva e il surriscaldamento spopolano il nostro mare. L'esperto Diego Borme: «Dovremo rinunciare a mangiarli»

TRIESTE.  La pesca intensiva e l'alzarsi della temperatura del mare: sono i due elementi che stanno spopolando l'Adriatico. I pescatori triestini hanno lanciato l'allarme già mesi fa: le 5 mila tonnellate di pesce che avevamo pescato nel 2005 si sono ridotte a 2.500 nel 2010. Ora Impresapesca Coldiretti ha stilato addirittura una classifica di pesci e crostacei che rischiano di mettersi sulla strada dell'estinzione: triglie e alici sono calate del 12%, naselli, merluzzi e seppie del 13%, gli scampi addirittura del 19%.

Mai pescatori di Chioggia e di Venezia lamentano in queste settimane anche la pressoché totale sparizione delle seppie. Un andamento confermato dal dipartimento di oceanografia biologica dell'Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste e in particolare dal ricercatore Diego Borme.

«Specie quali le razze, i palombi e i rombi - spiega Borme - sono diventate merce molto rara proprio perché sono stati massicciamente pescati negli ultimi tempi, mentre l'innalzamento della temperatura del mare potrebbe essere la causa della quasi totale sparizione delle cosiddette "papaline" il cui nome esatto è spratto, animali che prediligono temperature più basse e che un tempo si pescavano in misura rilevante appunto nei mesi invernali».

In Adriatico, infatti, si sono spinti in questi ultimi anni addirittura esemplari tipici dei mari tropicali quali il pesce serra e il pesce balestra. Il laboratorio di biologia marina di Fano sta studiando appunto il ruolo giocato in questo fenomeno dai mutamenti climatici e le zone di inquinamento, ma anche secondo Impresapesca della Coldiretti la ragione principale è comunque una pesca troppo intensa. Ora la nuova normativa imposta dall'Unione europea impone reti con maglie più larghe.

«La conseguenza dovrebbe essere - aggiunge Borme - che calamaretti, latterini e seppioline, per esempio, spariranno dalle nostre tavole. È il prezzo che dovremo pagare per alcuni anni per permettere il ripopolamento del nostro mare». In realtà a causa della globalizzazione dei mercati l'effetto arriva attutito al consumatore. Al mercato ittico di Trieste, nel 2000, il pesce commerciato era per il 40% quello preso dai pescatori locali, ma l'anno scorso questa quota era già ridotta al 30%. E la merce che compriamo nelle pescherie arriva addirittura dal Senegal o dal Canada.

La situazione è più favorevole nel Tirreno e nello Jonio dove la pesca sta andando bene. «Qui da noi - spiega Borme - e in particolare nell'Alto Adriatico, che è l'area più pescosa, il pesce è sotto pressione e gli esemplari non fanno in tempo a diventare adulti che vengono cacciati». Sono zone in cui, oltre tutto, incrociano pescherecci italiani, sloveni e croati e talvolta ci scappa anche qualche baruffa. «Amministratori e pescatori - conclude Borme - dovrebbero dare maggiormente retta agli istituti scientifici - in particolare per calibrare meglio i periodi di fermo pesca e per una selezione più accorta degli attrezzi con cui la pesca viene oggi compiuta».

 

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