«Due anni da piccola esule nel grande Silos di Trieste Come casa uno scatolone»

Giorgia Tamaro racconta la sua esperienza nel dopoguerra dopo aver lasciato da bambina Cittanova con tutta la famiglia vivendo nel campo profughi allestito nell’edificio 

la storia



«Ho vissuto per un paio d’anni al Silos, in quell’immenso edificio a tre piani posto accanto alla Stazione centrale dove all’inizio degli Anni Cinquanta forzatamente erano stati accampati migliaia di profughi istriani, fiumani e dalmati. Lì dentro ad ogni famiglia era stato assegnato come alloggio uno scatolone costruito con legno e faesite. Il tetto di quella “stanza”, di quel box, era di carta e noi - ricorda Giorgia Tamaro - «vi avevamo disegnato delle figure per renderlo più nostro, per darci un po’ di calore. L’acqua la prendevano nel corridoio con un secchio, i gabinetti erano lontani e non tutti si ricordavano di pulirli».

Giorgia Tamaro, occhi azzurri e capelli fini di un lontano color biondo, ha superato gli 80 anni di vita e il ricordo dei mesi e mesi passati nell’ enorme edificio - alveare dopo essere fuggita poco più che bambina da Cittanova, le è sempre accanto. Frammenti di memoria incancellabile con cui tanti esuli ogni giorno fanno i conti. Il silos è stato uno dei 120 campi in cui questa umanità dolente e disperata è stata accolta in varie regioni della Penisola. Baracche di lamiera o di legno sopravvissute malamente al terremoto di Messina del 1908, box di faesite, edifici che erano stati caserme durante la guerra mondiale da poco conclusa. Letti a castello, brande, pagliericci, freddo e umidità, servizi in comune. «Il nostro box- ricorda Tamaro - aveva una porta con la chiave ed era piuttosto lontano dalle finestre a cui tutti ambivano per vedere il cielo e il sole. Per questo - ricorda ancora Giorgia Tamaro - quando il tempo era bello, ci spostavamo nel cortile dove di solito giocavano rumorosamente tanti bambini e ragazzi. Cercavamo la luce perché quella nostra, dell’Istria e del suo mare, erano lontane anche se la distanza che ci separava da loro era poca cosa. Il pranzo lo andavamo a prendere in via Gambini. Pasta e pomodoro, pomodoro e pasta ogni giorno. Una parte la conservavamo per la cena e la riscaldavamo su un piccolo fornello elettrico. Papà e mamma ogni giorno mi ricordavano: ‘vai a prendere la pasta’. Loro andavano a lavorare per quel poco che Trieste offriva e io ero spesso sola. Mamma Gisella andava a lavare il bucato da alcune famiglie. Non esistevano all’epoca lavatrici. Andava a fare la lissia, anche se a Cittanova era una parrucchiera. Papà Giorgio invece si offriva ai barbieri triestini che di venerdì e sabato, quando i clienti erano più numerosi, lo accoglievano nel loro salone. Poi, per un paio d’anni trovò lavoro in Alto Adige. Sei giorni su sei e una certa regolarità di incassi». «Sono riuscita a lasciare il box del Silos a 17 anni - ricorda ancora Giorgia Tamaro - quando grazie all’aiuto di alcune persone di buon cuore sono stata accolta alla Scuola convitto per infermiere. Non avrei potuto presentare la domanda perché mi mancavano alcuni mesi per raggiungere i 18 anni, un limite che all’epoca sembrava invalicabile. Quando la suora mi disse che non c’era nulla da fare e che per essere ammessa avrei dovuto attendere l’anno successivo, mi misi a piangere. Forse la suora capì la mia disperazione, forse furono utili alcune lettere di presentazione firmate da un farmacista e da un sacerdote che conoscevano la mia famiglia e garantirono per me. Fui richiamata alla Scuola e la stessa suora mi accolse dicendomS che anche a suo giudizio al Silos non potevo più restare e che sarei stata accolta con le altre ragazze. Ci misero a dormire nella soffitta dell’Ospedale Maggiore. Era uno spazio molto diverso da quello del box dove arrivava un brusio continuo, affiancato dalle voci di radio, da singhiozzi di bambini che piangevano, da qualche lite e discussione animata. Nel silenzio dell’ospedale incominciò il tirocinio: lezioni in aula e lavoro in corsia. A fine del corso superai gli esami e dopo due anni divenni infermiera, prima assegnazione al Reparto di chirurgia. Poi studiai ancora, fui promossa caposala e la mia vita ricominciò a fluire».

Nel fluire della vita di Giorgia Tamaro né il Silos, né ciò che lo ha preceduto, sono comunque usciti di scena. Ieri raccontando con dolcezza ed emozione questo importante segmento della sua vita e di quella della sua famiglia, ha spiegato come suo padre Giorgio che gestiva un salone da barbiere a Cittanova, in corso Vittorio Emanuele, dopo l’occupazione jugoslava, fosse controllato dagli uomini di quel regime. «Veniva talvolta qualcuno nell’ora di chiusura e lo invitava a fare qualche chiacchiera. Sembrava un amico, diceva che altri conoscenti lo stavano aspettando, ma voleva saper se i clienti avevano parlato di politica. Voleva nomi, cognomi, contenuti dei discorsi. Papà aveva resistito, aveva paura e non aveva fatto parola di cosa gli stava accadendo nemmeno con la mamma. Ricordo che talvolta si sedeva a tavola e non riusciva a mangiare. Una sera, era ormai buio, disse che la nonna stava male e che doveva andarla a trovare a tutti i costi. Mamma Gisella cercò di dissuaderlo. Si allontanò a piedi nella notte e raggiunse Sicciole non so come. Poi con l’aiuto di un ex partigiano italiano salì sul vaporetto a Capodistria e sbarcò a Trieste. Noi lo seguimmo due anni dopo». —

Riproduzione riservata © Il Piccolo