E Cesare Pagnini partì alla ventura con la danzatrice

Le Edizioni Volpato pubblicano l’autobiografia dell’ex Podestà di Trieste al tempo dei nazisti
Di Pietro Spirito

di Pietro Spirito

Il periodo dell’occupazione nazista di Trieste, tra il 1943 e il 1945, sotto il diretto controllo del gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer, ha lasciato profonde cicatrici e molte ombre. Alcune di queste coprono le figure che più furono esposte durante gli anni dell’Adriatisches Küstenland, come il prefetto Bruno Coceani, che fu a capo della Provincia di Trieste con mansioni di controllo sugli altri prefetti della Venezia Giulia, e Cesare Pagnini, podestà di Trieste nello stesso periodo, che nel ’44 arruolò una guardia civica formata esclusivamente da volontari italiani, inizialmente addestrati da ufficiali delle SS, e che poi a. girono nei giorni dell’insurrezione contro gli stessi nazisti. Processati entrambi per collaborazionismo, Coceani e Pagnini furono infine scagionati dalla Corte d’Assise di Trieste. Ma su entrambi - che pure furono persone di spiccata attività culturale - rimase l’impronta infamante di aver tenuto bordone al nemico e, per di più, con dichiarati sentimenti antislavi, consegnando alla storia un’immagine da liquidare in fretta. Eppure certe controverse personalità a volte sono in grado, se meglio analizzate, di offrire sguardi non omologati sulla Storia. Non si tratta di abbracciare teorie revisioniste, ma semplicemente di osservare con più attenzione tali personalità e i loro atti, senza per questo necessariamente mutare il giudizio storico.

Per esempio Cesare Pagnini. Di lui le edizioni di Simone Volpato Studio Bibliografico hanno appena dato alle stampe il primo volume delle “Memorie” (pagg. 175, Euro 15,00) per la cura dello storico Antonio Trampus. È un’autobiografia fino ad ora inedita, i cui manoscritti originali sono conservati all’Archivio di Stato di Trieste, assieme ad altri documenti in parte riportati nel libro. Il primo volume del memoriale va dagli anni della giovinezza e della Prima guerra mondiale fino alla campagna di Grecia nel ’41. Il secondo volume, in preparazione, si occuperà degli anni caldi in cui Pagnini fu podestà fino al processo e al dopoguerra. Come spiega una nota editoriale, Pagnini iniziò a scrivere il memoriale a partire dal 1945, per la precisione il 4 maggio, mentre l’ex podestà era «prigioniero volontario», come ha scritto, poco prima di essere rinchiuso nel carcere di via Tigor in attesa del processo per collaborazionismo. Per cui la prima stesura riguarda i fatti del ’43-’45 ed è una memoria difensiva. Poi, nel corso degli anni Cinquanta, Pagnini rimise mano alla narrazione, fino a comprendere il periodo precedente, quello della Grande guerra, riprendendo e sistemando il testo in ordine cronologico nel 1968, per poi cercare di dargli una forma definitiva tra il 1987 e il 1989, l’anno della sua morte. Il curatore, Antonio Trampus, è stato bravissimo nell’approccio filologico al testo, recuperando le parti espunte più interessanti, rispettando i tagli meno importanti e arricchendo il tutto con un apparato di note esplicative utili per navigare nel mare magnum del memoriale.

Il risultato è un racconto avvincente, che apre scorci molto interessanti sulla Trieste della “prima redenzione”, e restituisce al lettore un personaggio sfaccettato, controverso ma anche affascinante. Un vero figlio del suo tempo, verrebbe da dire, con tutte le luci e le ombre di un’epoca che, dopo la carneficina della Grande guerra, si illuse di poter contare su un futuro radioso e invece precipitò nel più profondo degli abissi. La narrazione - in prima persona -, inizia nel 1914, allo scoppio del conflitto, quando Pagnini ha quattordici anni e «una cappa di piombo pesava sulla città». Rampollo di solida famiglia irredentista, cresciuto a pane e Risorgimento, il giovane Pagnini al compimento della maggiore età, nel 1917, viene richiamato nelle truppe imperiali. Finisce come ufficiale di complemento a Vittorio Veneto, cittadina caduta in mano asburgica dopo la disfatta di Caporetto. Qui Pagnini, cui la divisa imperiale non ha mai smesso di prudere, avvia un una proficua attività di spionaggio a favore dell’esercito italiano. Le pagine in cui racconta questo impegno di intelligence, aiutato da altri triestini con la divisa austriaca come Carlo Baxa, è illuminante per capire come l’Austria-Ungheria perse la guerra non tanto sui campi di battaglia, quanto piuttosto per il collasso interno delle sue variegate componenti.

A guerra finita, però, gli italiani non furono così riconoscenti. Pagnini finì in campo di concentramento, e ci volle del bello e del buono per far capire ai vincitori che si trattava non di un qualunque voltagabbana, ma di un eroe irredentista. E quando tornò a Trieste, il reduce trovò una città divisa, dilaniata, impoverita, dove se da un lato l’«ubbriacatura patriottica» arrivava a «stati di mistica e di adorazione», dall’altra l’esercito italiano amministrava la città come nient’altro che «un territorio nemico occupato militarmente». Nonostante lo sbarco dei bersaglieri fosse stato «il momento più intensamente vissuto dalla popolazione», venne ignorato dagli italiani, «come fu ignorato tutto quanto era stato vissuto dai Triestini nell’esercito austriaco. I morti della Russia e della Serbia non ebbero mai onore di pianto». Anzi, i reduci della Galizia portarono in città dai fronti russi nuove istanze socialiste e aneliti rivoluzionari e, mentre gli «Slavi si agitavano» e «gli austriacanti, perduta la partita, gettavano nuova materia infiammabile sulla brace». E i volontari irredenti? I triestini che avevano combattuto con il tricolore rischiando il capestro? «Molti di essi - scrive Pagnini - erano rimasti sul campo; gli altri avevano subìto l’Italia torbida e misconoscente che noi ora vedevamo e, ripiegati i loro ideali, aspettavano il nuovo verbo dalla repubblica sociale che un giorno o l’altro avrebbe dovuto spazzare ogni lordura». Così, in una città dove «i muri erano tappezzati di manifesti di tutte le massonerie, di partiti mai intesi: democrazia sociale, socialisti riformisti, costituzionali, nazionalisti, massimalisti, radicali, agrari e via dicendo» - in questa Trieste dove sembra attecchire solo l’Italia peggiore, la strada al fascismo è ormai spianata. E Pagnini ovviamente vi aderisce, diventando segretario dell’Istituto di Cultura Fascista.

Nel frattempo è sbocciata l’epoca dei telefoni bianchi, dello spiritualismo prêt-à-porter, della vita vissuta al ritmo di una modernità senza limiti in un mondo in cui gli orizzonti si fanno al tempo stesso più ampi e più vicini. Pagnini entra in contatto con artisti, letterati ed eruditi come Carlo Leone Curiel, frequenta spettacoli e concerti. Compie un lungo viaggio in Spagna, in particolare a Barcellona, dove vive «un’esplosione di giovinezza e di sensualità» ammaliato dalle «zingare gitane». Nel 1925 a Vittorio Veneto ha sposato Anita Amadio, la cui famiglia lo aveva accolto e protetto durante a ritirata degli austriaci. Ma il matrimonio dura poco, Pagnini preferisce collezionare un discreto numero di amanti. Fra queste, sarà legato in tormentato rapporto con quella che nel memoriale chiama Ra, ma in realtà era Britta Schellander (1909-1977) danzatrice e coreografa che lo porterà in giro per l’Europa fra scintillanti teatri e bettole malfamate.

A quindici anni dalla fine della Grande guerra, a sorpresa, un articolo sul Corriere della Sera scritto dall’eroe Alessandro Tandura, il primo paracadutista della storia a lanciarsi durante un’azione bellica, ricorda il grande contributo e coraggio per la vittoria dato dalla “spia” Cesare Pagnini. A Trieste l’articolo ha l’effetto di un botto, e Pagnini, che in quel periodo lavora come oscuro travet in un ufficio, esce dall’ombra e si trova proiettato d’un colpo nell’empireo degli eroi irredentisti. Poi scoppia la Seconda guerra mondiale, e Pagnini si arruola per andare a combattere in Grecia.

Adesso aspettiamo il secondo volume con la nuova puntata della Pagnini-story, quella degli anni in cui fu podestà di Trieste. E se queste sono le premesse, ci sarà di che leggere.

@p_spirito

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