In una Trieste quasi americana Calopresti racconta l’infanzia

TRIESTE A vent'anni esatti dal suo esordio con il film "La seconda volta", Mimmo Calopresti ritorna sul grande schermo con il suo sesto lungometraggio "Uno per tutti", tratto dall'omonimo romanzo di Gaetano Savatteri e interamente girato a Trieste, l'inverno scorso.
Protagonisti sono Gil, Vinz e Saro, tre amici immigrati al Nord che la vita ha separato, accomunati da un evento tragico che li ha coinvolti da ragazzini. Il destino li farà incontrare ancora, ormai adulti, costringendoli a fare i conti con le proprie responsabilità quando Teo, il figlio di uno di loro, si mette nei guai riducendo in fin di vita un coetaneo durante una rissa. Nel cast, assieme a Isabella Ferrari, Thomas Trabacchi e Fabrizio Ferracane, un inedito Giorgio Panariello, per la prima volta in un ruolo drammatico.
Mimmo Calopresti (che sarà presente assieme al cast lunedì 23 novembre - alle 20.30 - al cinema Ariston per l’anteprima nazionale del film e al termine della proiezione risponderà alle domande del pubblico) cosa l'ha colpita nel romanzo di Savatteri per decidere di portarlo sullo schermo?
«Soprattutto il plot. E ritrovarci un tema a me caro ovvero il passato che non ti abbandona mai, che ritorna anche nel presente. Mi piaceva l'idea di raccontare una piccola epopea dell'infanzia per vederne gli effetti ai giorni nostri. Quindi il rapporto tra passato e presente e l'idea della memoria, che per me è sempre molto importante. Quest'idea che bisogna occuparsi del proprio passato per poter guardare al futuro».
Alcuni luoghi, in particolare la Calabria e Torino, sono ricorrenti nel suo cinema come nella sua vita. Come mai questa volta ha scelto di ambientare il suo film a Trieste?
«Potrà sembrare strano, ma Trieste somiglia architettonicamente molto a Torino. Però c'è anche il mare, e il fatto di vedere queste barche sulla linea dell'orizzonte offre una via di fuga. Hai sempre la sensazione di poter salire su una nave e così scappare dal tuo mondo, dalla situazione in cui ti trovi. Non è così, ma è sufficiente l'idea».
Che città ne viene fuori?
«"Uno per tutti" è un film metropolitano. Racconta la vita nelle città con i suoi abitanti, la sua industria. Ne viene fuori una città del nord come potrebbero essere anche altre: Torino o Milano. Viene fuori una Trieste per me molto bella, internazionale, protagonista assieme agli attori, dove c'è qualcosa del passato e del futuro che si mescolano. Potrebbe diventare il posto più bello del mondo. Quella villa dove è ambientata parte del film potrebbe stare anche in un grande film americano».
Infatti. E questo fa pensare che stavolta si sia fatto suggestionare da un immaginario cinematografico americano, mentre i suoi primi film guardaavno di più al cinema francese.
«È vero. A partire dal plot classico che si ritrova in molti film americani. Ma anche in altri aspetti come il fatto di entrare subito nelle vite dei personaggi, senza descriverli, precipitandomi dentro alla storia senza tanti preamboli. Ci entro dentro immediatamente e c'è un avvenimento che le mette in moto. Sono i tempi di un cinema americano. Poi però faccio un film italiano. È un altro cinema.
Tornando alla Calabria, terra di origine, in tutti i suoi film è sempre presente e ammantata da un'aura nostalgica. Cosa rappresenta per lei?
«La Calabria per me è il luogo del mito, dove tutto diventa molto romantico. È al di là del reale. Se guardo alla Calabria vera la vedo in preda a problemi irrisolvibili e la mia diventa una visione amara. Se invece resto nel mito dell'infanzia, la visione resta quella di un Eden perduto».
Esiste ancora l'appartenenza geografica? O riguarda di più le generazioni del passato?
«Sicuramente appartiene di più alle generazioni del passato. Però questo è un argomento su cui sto riflettendo parecchio, perché la nostra identità è importante. Trieste, ad esempio, è una città che stando sul confine ha acquisito un'identità precisa che le ha permesso lo scambio culturale, lo scambio commerciale, l'ha fatta diventare quello che è. Dimenticare questi aspetti e non coltivarli portano a una società appiattita in cui tutti siamo uguali e irriconoscibili. La globalizzazione uccide le diversità. Comprese le cose belle che ci contraddistinguono. E in questo modo perdiamo pezzi utili a rapportarci con gli altri».
Il grande pubblico la conosce soprattutto per i film di finzione, ma lei ha all'attivo anche molti documentari in cui adotta uno sguardo più impegnato (tra i temi che affronta c'è il lavoro, la fabbrica, l'Olocausto). Nei suoi film il racconto è più intimista. Dove si trova più a suo agio?
«Trovo che nella finzione si racconti la realtà più facilmente. E' il luogo dove siamo più vicini al nostro intimo. Nel documentario hai dei temi su cui concentrarti. Ma esiste sempre un pezzo in più che ci permette di stare sopra a quei temi, altrimenti la vita sarebbe miserabile. Invece per fortuna ci sono i sentimenti, l'amore, l'amicizia, le grandi passioni, lo sguardo verso il futuro, lo sguardo romantico. Nel cinema ti è permesso tutto questo sovrappiù della realtà, ma che pure ne fa parte. Io non potrei vivere senza quella parte lì».
"Uno per tutti" mette i protagonisti di fronte a un dilemma morale. L'anno scorso un altro film, "I nostri ragazzi" di Ivano De Matteo, affrontava lo stesso tema dal punto di vista di due coppie di genitori che scoprono un delitto commesso dai propri figli e non sanno se nasconderlo per proteggerli o affrontare la giustizia. Pensa che la distanza tra genitori e figli si sia acuita? Che abbiamo il problema di non riuscire a comprendere e a comunicare con gli adolescenti?
«È perfino più grave di così. Abbiamo il problema di conoscerci, siamo diventati troppo distanti. Eloisa, il personaggio interpretato da Isabella Ferrari, anche se ha atteggiamenti molto materni e protettivi, neppure lo vede il figlio, non lo conosce perché è distratta da altri problemi, ha lo sguardo altrove. E i ragazzi non guardano a noi ma badano molto di più alle loro storie sui social. Il problema non sono i social, siamo noi. Non riusciamo a stare dentro alla vita. Ho apprezzato molto le parole del Papa quando ha detto che almeno a tavola dovremmo spegnere la televisione e parlare. Cose semplici. Sono quelle che ci mancano. La nostra vita è diventata molto complicata».
Il dilemma sembra appartenere comunque agli adulti. I ragazzi appaiono per lo più inconsapevoli delle loro azioni.
«Assolutamente inconsapevoli. Loro se ne infischiano. Però noi dobbiamo cominciare a occuparcene e a fare i genitori. "Uno per tutti" è un film sul senso di responsabilità. Quello di tutti noi».
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