Katia fugge per amore da Berlino Est verso la dolorosa eredità del Muro

È la storia del premiato esordio di Aroa Moreno Durán  con “Cose che si portano in viaggio” edito da Guanda

Federica Manzon

“Mi chiamavano la spagnola. Solo quando la conversazione si protraeva riuscivo a spiegare che gli spagnoli erano i miei genitori, io no, io ero tedesca. Ero di Berlino. Dall’altro lato”. In un mondo diviso in due dalla guerra fredda, in una Germania congelata nell’opposizione tra comunisti e democratici, Katia è una cittadina di nessun luogo. Una figlia di sradicati spagnoli cresciuta nell’aria poliziesca della Ddr delle parate e delle delazioni. Una ragazza che con un gesto d’impulso scappa a Ovest per amore, o forse perché quello è il destino di famiglia.

È lei la protagonista del romanzo d’esordio di Aroa Moreno Durán “Cose che si portano in viaggio” (Guanda, pagg. 171, euro 16, traduzione di Roberta Bovaia), vincitore in Spagna del Premio Ojo Crítico per il miglior romanzo dell’anno.

Katia non solo incarna il dramma ideologico dell’Europa postbellica, ma anche illumina i rapporti tra una Germania Est burocratizzata e assediata dal sospetto, e una Germania Ovest dove, sotto una superficie di idilliaco benessere, palpitano ancora i segni dell’esperienza nazista.

Nata in una Berlino unita, Katia non sa nulla del passato dei propri genitori, conosce solo alcune fotografie spagnole nascoste in una valigia sotto il letto. È una bambina la notte in cui viene costruito il Muro che dividerà la sua città, e improvvisamente la parte dove andava a fare la spesa diventa “l’altro lato”. Cresce in una casa dove la radio trasmette per tutta la notte il lipsi, il ballo assurdo e asessuato con cui il governo pretende di combattere il rock’n roll. Il suo è un mondo dove la paura di essere perseguitati dallo Stato penetra nell’intimo delle persone e le cambia, una società dove il terrore è il sentimento che meglio ti fa capire chi sia lo Stato. È in questo mondo che Katia incontra Johannes, uno sconosciuto che le lascia un libro di Neruda sulla porta di casa, un giovane ostinato che arriva dall’Ovest e che ha deciso di sposarla. È semplice, dice, conosco qualcuno che può farti uscire da qui.

Per Katia la decisione è istintiva e irragionevole. Non lascia messaggi, abbandona per sempre i genitori e la sorella, lanciandosi in quel percorso rischioso, di frontiera in frontiera, che in molti tentavano per raggiungere l’Ovest alla ricerca di una vita migliore o anche solo di biblioteche dove trovare libri senza censura. La storia di Katia diventa la storia di tutti quei ragazzi dell’Est che fuggivano all’Ovest. E ad attenderla trova una casa con il giardino di meli per le marmellate, una suocera che organizza i pasti con precisione calorica e conserva i vestitini a maglia dei figli in scatole etichettate, pulizia e ordine, strudel nel forno e una cucina con quadri, tovaglie e cuscini tutti verdi. Una nuova famiglia dove nessuno le chiede mai niente di personale e dove aleggia il fantasma della guerra, di quello che suo suocero e i vicini e gli amici erano stati durante la guerra. Meglio non parlarne. Ma può il cuore di una ragazza sradicata mettere radici in una nazione che guarda con disprezzo l’Est in cui è cresciuta, con un uomo che l’ha spinta ad abbandonare la sua famiglia senza saluti e spiegazioni?

Quando il Muro cade, alcuni musicisti dell’Est suonano l’Internazionale ai piedi dei Reichstag, un requiem a uno Stato appena liquidato. Sarà con quella musica nell’animo che Katia torna a Berlino Est per cercare quello che resta della sua famiglia. Tornerà a piedi in quelle strade, perché è a piedi che si va nei posti importanti, le aveva insegnato suo padre. Ma cosa potrebbe trovare nella Ddr della sua infanzia se non un dossier che dice della sua famiglia qualcosa che non avrebbe mai voluto sapere? Ad attenderla è l’eredità del Muro, uguale a quella lasciata da tutti i muri che impediscono in modo violento il libero flusso delle persone: la vita a pezzi di quelli che sono partiti e la casa piena di paura e di dolore di quelli che sono rimasti. —



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