La Porta... azzurra aperta sull’Europa: cammini con Saba, arrivi fino a Canetti

TRIESTE Lino Guanciale è quel che si dice un lettore forte. Anzi, fortissimo: «Leggo cento, centoventi libri l’anno, e solo libri di carta. Ne porto appresso sempre una trentina», dice. Per “appresso” intende su e giù per l’Italia, da Napoli a Taranto, dove l’attore ha appena finito di girare la nuova serie di RaiFiction “Il commissario Ricciardi” tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni, fino a Modena, dove la settimana scorsa ha debuttato alla regia in teatro con “Nozze”, la pièce del Premio Nobel Elias Canetti. Ora, per qualche settimana, tornerà sui palchi di tutto il Nord Italia anche in veste di interprete in “After Miss Julie”, accanto a Gabriella Pession. In valigia, i libri non mancano mai. Del resto, se non avesse fatto l’attore, Guanciale sarebbe voluto diventare professore di lettere. E anche per questa sua passione si è innamorato immediatamente di Trieste quando, per sei mesi nel 2016 e altrettanti nel 2018, ci ha vissuto durante le riprese della serie tv “La porta rossa”.
Una delle prime cose che ha fatto a Trieste è stata prendere la tessera della biblioteca…
Vivere lì è stato fonte di molte ispirazioni letterarie. La più importante riguarda Saba, che già conoscevo, però l’amore vero è arrivato quando ho cominciato a leggerlo per le strade della città, a frequentarne la libreria. Di Joyce avevo letto molto nell’adolescenza, dopo Trieste ho riletto “Ritratto dell’artista da giovane” e “Finnegans Wake”. Poi ci sono altri autori e testi che non c’entrano con la città ma che ho letto proprio lì in biblioteca e sono legati a momenti miei dentro Trieste. Per esempio, nel romanzo “Il grido” di Luciano Funetta, una storia distopica, c’è un lungo capitolo dedicato alle persone che vivono sulla ferrovia. Io avevo negli occhi il Museo Ferroviario e l’area della città dove avevo girato di notte alcune scene di “La porta rossa”: nella mia mente non riesco ad ambientarlo che lì.
Perché Trieste invita alla narrazione?
Si porta dietro l’eredità di capitale mitteleuropea: nell’Impero asburgico le arti, le lettere e il teatro erano molto considerati, quello che succedeva a Vienna poteva accadere anche a Budapest o a Trieste. È un lascito della sua identità ibrida tra Italia ed Europa. Oltre a questo, la presenza del mare aiuta a mettere tutto in una prospettiva diversa. È un luogo unico sia visto dal centro dell’Europa, sia del Mediterraneo.
Una simile commistione di anime abita Elias Canetti, uno dei suoi autori preferiti, che ha scelto per debuttare alla regia teatrale…
Canetti è figlio dell’Europa di cui parlavo, dell’Impero austro-ungarico: bulgaro di nascita, ebreo di provenienza sia da parte di padre che di madre, cresce un po’ in Inghilterra, nell’adolescenza è in Austria e poi vive a Zurigo. Tocca almeno sette, otto posti diversi che ne formano l’identità. Viene dall’Europa più colta e avanzata dal punto di vista intellettuale: un autore che, come Trieste, è un unicum. Non scrisse tantissimo, ma tutti i giorni della sua vita. Ha scritto un romanzo che è un capolavoro assoluto, “Autodafé”, poco teatro, ovvero “Nozze” e “La commedia della vanità”, un trattato filosofico antropologico, “Massa e potere”, un libro di viaggio, “Le voci di Marrakech”, e una biografia in tre capitoli, “La lingua salvata”, “Il frutto del fuoco” e “Il gioco degli occhi”. Il resto sono aneddoti e frammenti. È un autore tanto complesso quanto inclusivo. Filosoficamente è molto articolato, ma ha anche una grande capacità discorsiva che mi ha conquistato da subito. E poi scrive perché la scrittura lo fa stare bene: è un po’ quello che penso del mio mestiere. È stato naturale scegliere per il mio debutto un autore che mi è così caro.
Cosa leggeva da bambino?
“L’isola del tesoro” di Stevenson è stato il primo libro che ho letto, poi tutto Verne e Salgari. Da piccolino ho letto anche “La Divina Commedia” perché mi affascinava un’edizione che avevamo a casa: a quell’età non ci ho capito granché. Gli autori della prima adolescenza sono stati Rodari e Calvino: ho letto “Il barone rampante” a 13 anni. A 15 anni ho approcciato anche Borges: mi ha aperto la testa. Credo che sia un bene invitare i ragazzi a sfidare sé stessi su letture complesse.
Qual è secondo lei il libro imprescindibile che ciascuno dovrebbe leggere?
Mi auguro sempre che soprattutto i giovani conoscano il più possibile Calvino, un punto di riferimento in un tempo in cui la letteratura stava superando i limiti della narrazione classica, e anche un grande teorico della letteratura e consulente editoriale, che ha responsabilità enormi sulla nostra tradizione letteraria tra il dopoguerra e gli anni ’80. E poi Carlo Emilio Gadda, l’autore che nel ’900 ha tirato fuori più di tutti il potenziale della nostra lingua, e naturalmente Pasolini. Volutamente cito tutti italiani: la lettura della nostra tradizione linguistica va rivalutata. Fra gli autori teatrali Giovanni Testori, che sarebbe bello venisse riscoperto, Ennio Flaiano, per il marchio ironico e caustico che ha dato a ogni suo testo. Poi c’è la poesia odierna, un territorio complicato che fatica dal punto di vista editoriale: certamente Valerio Magrelli è un poeta importante. Infine Pier Vittorio Tondelli: “Altri libertini” è una lettura fondamentale attorno ai vent’anni.
Quali libri ha ora sul comodino?
L’ultimo libro di Paolo Di Paolo, “Lontano dagli occhi”. Bruce Chatwin è sempre con me, ogni tanto rispolvero uno dei suoi testi, ora “Anatomia dell’irrequietezza”. Per motivi di lavoro ho appena esaurito la saga de “Il commissario Ricciardi”. E ho appena letto “Nuvole barocche” di Antonio Paolacci e Paola Ronco, un giallo scritto con grande attenzione stilistica e compositiva, sul solco di Fruttero e Lucentini, con protagonista il primo commissario gay. — © RIPRODUZIONE RISERVATA
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