La resurrezione di Matrix riapre dall’interno la trilogia per spettatori esigenti

Il film di Lana (un tempo Larry) Wachowski 22 anni dopo Non un semplice sequel, ma un gioco che arriva al paradosso 
Beatrice Fiorentino



Pillola rossa o pillola blu? Realtà o illusione? Ruota ancora intorno a questo concetto il quarto capitolo del filone “Matrix”, in sala a 22 anni dall’uscita del film che ha rivoluzionato l’immaginario fantascientifico cyberpunk a cavallo tra i due millenni, 18 dopo il dittico “Reloaded” e “Revolutions”. Oggi il nuovo sequel che porta la firma di una sola delle sorelle Wachowski, Lana (Larry prima della transizione), rientra dialetticamente in connessione con i precedenti film della trilogia ormai chiaramente avviata verso il franchise. Lo riapre dall’interno, lo resuscita - come il titolo lascia presagire - attraverso i suoi protagonisti, Neo, Trinity e altri personaggi, nuovi oppure reinventati nei corpi, nei nomi, negli attori, risucchiati in una vertigine nolaniana di strati narrativi.

Libero arbitrio o destino? Abbiamo il potere di scegliere? O invece assecondiamo un copione che qualcuno, altrove, stabilisce e programma, auto-protetti in una comfort zone che limita il nostro potenziale?

La risposta è in una realtà non-binaria evidentemente nelle corde delle sorelle -ex fratelli- Wachowski. Non un semplice sequel della trilogia, ma un film sulla trilogia stessa e sul fenomeno delle saghe e i reboot, “Matrix: Resurrections” non ha la forza tellurica degli esordi, ma rischia e trova la sua dimensione in un tono farsesco, ironico e persino autoironico nonché meta-narrativo quando - in un sistema di scatole cinesi sul modello carrolliano, da sempre fonte di ispirazione per le autrici - arriva a raccontare di sé e della sua genesi, con espliciti riferimenti agli ultimatum della Warner Bros, all’universo videoludico, alla necessità di rinnovarsi per rilanciare la saga a noi spettatori esigenti e nostalgici. Tra bullet-time, “spiegoni” e coreografie meno precise di un tempo (ma il modello è ancora quello di Hong Kong), rivisita la propria mitologia in un gioco esplicito fino al paradosso, entrando in connessione con il presente attraverso una riflessione teorica che investe immagini e memoria, cinema e industria, rappresentazione e realtà. —

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